Il 1700 si apre con le nuove mappe del Catasto Teresiano e si chiude con l’edificazione della nuova chiesa parrocchiale di Santa Anastasia. Tra battesimi e funerali la frazione monzese cresce e mantiene i suoi connotati di borgo contadino, trovando nella gelsicoltura una nuova fonte di reddito.
IL CATASTO TERESIANO

Come già visto, per gli antichi comuni come Villa San Fiorano e Sant’Alessandro, che andarono poi a comporre la futura Villasanta, il 1700 rappresentò un momento di acquisizione di importanti notizie tramite la realizzazione del Catasto Teresiano, voluto dal governo austriaco. Abbiamo anche già evidenziato il ruolo importante che questo strumento rappresentò per il Lombardo/Veneto nel processo di costruzione di un moderno sistema fiscale e tributario, abbandonando gli ultimi residui dell’impianto feudale. Tuttavia, per quanto riguarda la Santa non possiamo sfruttare questo processo di censimento catastale come fonte importante di notizie e dati statistici. Il Catasto, infatti, prese in considerazione tutto l’ambito cittadino del borgo di Monza, senza trasmetterci dati disaggregati sulle sue frazioni. Ci risulta comunque estremamente significativo il contributo che realizzò grazie alla stesura delle mappe di tutto il territorio, con l’indicazione anche delle più piccole proprietà e con una estrema cura per i dettagli.
Risale così al 1722 la prima restituzione grafica del territorio della Santa con i suoi campi ed edifici (vedi sopra).
Dobbiamo attribuire al Catasto Teresiano anche la prima individuazione dei confini amministrativi del nostro territorio, suddiviso nei tanti piccoli comuni e frazioni che al tempo ne caratterizzavano l’assetto istituzionale. Nella già vista “Carta dei Comuni” abbiamo appunto riprodotto la situazione che si presentava nella prima metà del ‘700, che vedeva la presenza all’interno degli attuali confini di Villasanta di ben 4 comuni e della frazione monzese della Santa. Possiamo comunque precisare come 2 di questi “comuni”, Sesto Giovane e Taverna della Costa, sembrano essere stati realtà amministrative decisamente effimere e di scarsa consistenza. Gli stessi “agrimensori” incaricati dei rilievi sul territorio e della raccolta di informazioni dichiarano non aver trovato alcun riscontro concreto della loro vita amministrativa (1).
Possiamo comunque dire che ad inizio secolo la Santa doveva contare poco più di circa 300 “anime” (in linea anche con Villa S.Fiorano). Il borgo confermò il suo continuo processo di sviluppo, anche se con un indice di crescita ancora modesto. A fine 1700 si raggiunsero i circa 400 abitanti, tutti ancora legati alle attività agricole se si escludono i soliti artigiani e “molinari”. Le abitazioni per tutto il secolo restarono concentrate intorno al nucleo originario addossato alla chiesa e all’attuale villa Camperio, senza nuovi insediamenti urbani sul restante territorio. L’unico nucleo significativo al di fuori dell’asse dell’attuale via Confalonieri, restava quello dei “Mulini Asciutti” al quale si aggiungevano alcune piccole cascine verso Monza, già presenti a fine ‘600 (Ponchione, Pairana). Sarà solo con il 1800 che la Santa conoscerà un impetuoso sviluppo demografico e edilizio.
NASCITE, MORTI E MATRIMONI
Uno scorcio sulla vita del tempo in un piccolo sito come poteva essere la frazione della Santa, ci è dato dalla lettura di alcuni fogli dei registri parrocchiali dei “battesimi, funerali e matrimoni” proprio dei primi del 1700, redatti dal parroco Don Paolo A. Redaelli. (2)
BATTESIMI E FUNERALI
I neonati venivano battezzati dal parroco nello stesso giorno della nascita o quello subito successivo, stante chiaramente l’alto rischio di mortalità infantile. In alcuni casi anzi, “ateso il pericolo”, era spesso la levatrice (intesa come la donna esperta e spesso vedova che assisteva al parto) a dover battezzare di necessità in casa il neonato, a cui poi il parroco in chiesa suppliva le sacre cerimonie. In questo caso la levatrice assumeva anche il titolo di comadre, cioè madrina. Ricorre infatti spesso come comadre “battezzante” il nome di Margarita Saetta, che doveva appunto essere la levatrice del tempo. Nelle situazioni non a rischio venivano comunque sempre segnalati sia il padrino che la madrina
Si presentarono anche casi più particolari in cui il parroco ad esempio battezzò “sub iudice” un figliolo esposto su la porta della casa parrocchiale. Curiosamente il neonato aveva al collo un biglietto in cui si avvertiva come fosse già stato battezzato in casa col nome di Giuseppe e come suo “compadre” fosse certo Antonio Carzaniga. A quest’ultimo il parroco rese il fanciullo, dopo il battesimo in chiesa, perché lo portasse al Venerando Ospitale Maggiore di Milano. L’antico ospedale, noto anche come la “Ca’ granda”, oggi diventato il Policlinico di Milano, doveva probabilmente fungere anche da orfanotrofio per i poveri.
In questi libri troviamo purtroppo non pochi nomi di questi neonati anche tra i registri dei morti dello stesso anno o del successivo. La mortalità infantile era infatti elevata. Ad esempio nel periodo da aprile 1705 a maggio 1706 dei 39 fanciulli battezzati in tutta la parrocchia ben 9 (quasi 25%) non sopravvissero all’anno successivo e rappresentarono quasi il 50% di tutti i funerali celebrati nello stesso periodo. A questi neonati non venivano impartiti sacramenti se non il battesimo, mentre tutti gli altri parrocchiani ricevevano i “Ss sacramenti di Penitenza, Eucaristia e estrema unzione”. Tutti venivano sepolti nella chiesa parrocchiale (3)
E’ interessante il caso di due di questi neonati deceduti prematuramente. Non erano infatti originari della nostra parrocchia ma di Monza e Milano e si trovavano alla Santa in quanto “dati a lattarsi” alle nostre concittadine Lucia Borrona e Domenica Magna. Erano probabilmente figliuoli di famiglie cittadine benestanti dati a balia a donne delle campagne circostanti dietro ricompensa economica. Dai nostri registri possiamo anche accertare come queste due nostre balie erano a loro volta puerpere “di sana e robusta costituzione” che dovevano così allattare sia i propri figli che quelli presi a balia. Questa pratica permetteva alle famiglie contadine di arrotondare in modo significativo le proprie entrate.

MATRIMONI
In merito invece ai matrimoni possiamo dire che il rito prevedeva come preliminari l’ottenimento del Consenso e tre pubblicazioni in tre giorni festivi continui. In assenza di alcuna segnalazione di impedimenti, gli sposi potevano celebrare il matrimonio. Dobbiamo dire che nostre giovani concittadine trovarono giusto apprezzamento da parte di non pochi giovani uomini di “fuori comune”. Dei 19 matrimoni contratti tra il maggio del 1704 e del 1706 ben 9 infatti videro la presenza di uno sposo proveniente da comuni circostanti, a dimostrazione anche di una certa dinamicità del contesto sociale.
Un altro dato interessante è costituito dalla ricorrenza di sposi “vedovi o vedove”. Sempre di quei 19 matrimoni registrati ben 7 coinvolsero persone con questo stato civile. Tra questi 3 si celebrarono con sposi entrambi vedovi. Questa particolarità va ricondotta alla “giovane” età in cui spesso il marito o la moglie venivano a perdere il loro coniuge, nonché alla grave difficoltà di poter “tirare avanti” da soli una famiglia magari già con figli.
LA VILLA CASNEDI
L’inizio del 1700 segnò anche l’arrivo alla Santa della nobile e ricca famiglia Casnedi, di origini comasche ma da tempo installatasi a Milano. Il marchese Francesco aveva infatti sposato l’ultima erede della famiglia Secco, donna Ippolita, che morì nel 1704. I suoi tanti beni dislocati sul nostro territorio entrarono così nel patrimonio dei Casnedi, a cominciare dalla Villa. Dobbiamo però dire che l’ingresso del marchese Casnedi sul palcoscenico “santese” non fu dei più brillanti. Al suo seguito si presentarono infatti nel 1707 anche gli Ufficiali giudiziari della Regia Camera delle entrate che praticamente “appresero e confiscarono” tutti i beni (case, mobili, osteria, terreni, rendite e fitti) del marchese presenti nel territorio della Santa.
Il Regio Fisco doveva probabilmente vantare non pochi crediti verso il Casnedi. La notizia fece rapidamente il giro del paese, allarmando non poco i nostri concittadini del tempo. I massari e pigionanti già dei Secco ed ora dei Casnedi, tutti della Santa, furono dapprima accuratamente interrogati dai regi questori, interessati a verificare tutte le notizie in merito ai possedimenti in loco del marchese e poi incaricati di “tenere in sequestro” tutti i beni confiscati. A questo punto, ci si doveva rapportare non più con il Casnedi ma direttamente con la Regia Camera. I questori si recarono anche presso la Villa nella speranza di potervi trovare qualche cespite in denaro o in natura da poter immediatamente confiscare.
Il fattore Giovanni Colombo, che risiedeva nella stessa “casa da nobile”, dichiarò subito che tutti i prodotti da lui ritirati dai contadini per il pagamento dei fitti erano già stati da tempo spediti a Milano, come del resto le 300 lire riscosse dall’oste.
Ci risulta che tutti i beni confiscati restarono comunque negli anni successivi nel patrimonio del marchese Francesco Casnedi che riuscì quindi in qualche modo a saldare il debito
LA NUOVA PARROCCHIALE
La seconda metà del secolo registra un importante avvenimento per la comunità della Santa, e non solo. L’allora parroco in carica Don Giovanni Beretta decise infatti che erano oramai maturi i tempi perché la parrocchia di Santa Anastasia avesse una nuova chiesa, decisamente più grande e in grado di rispondere alle esigenze spirituali di una comunità che si andava sempre più ampliando. La vecchia chiesa di via Don Galli era in grado di accogliere solo “una terza parte del popolo” e non risultarono convincenti i progetti di un suo eventuale ampliamento, oramai troppo chiusa all’interno del perimetro urbano. Già il precedente parroco Don Rotondi aveva iniziato ad affrontare questa impresa, anche se si trovò sempre osteggiato da “certi torpidi caporioni”, forse gli stessi che contrastarono i precedenti parroci (4).Oltretutto proprio nel maggio 1768 metà della copertura della chiesa crollò, lasciandola impraticabile per buona parte. L’altare maggiore di legno, vecchio di secoli, era completamente mangiato dai tarli e la cupola del campanile pericolante. Il Parroco doveva celebrare messa negli oratori dipendenti (Sant’Alessandro, San Fiorano) mentre il catechismo veniva impartito sotto una tenda in campagna e per i Sacramenti si doveva andare a Monza. Non si poteva aspettare oltre.
Il sito della nuova chiesa fu individuato non lontano dalla precedente, nel luogo dove si trova oggi la parrocchiale di Santa Anastasia, su un terreno “graziosamente” donato dai fratelli marchesi Casnedi. Furono loro a deporre infatti la “prima pietra” nelle fondamenta del nuovo edificio. I lavori iniziarono nel 1768 e si protrassero ben oltre quanto previsto da Don Beretta, che appunto morì nel 1792 senza riuscire a vedere la fine del suo coraggioso progetto. Fu infatti il suo successore Don Tommaso Spinelli a celebrare nel 1796 la cerimonia di benedizione del nuovo tempio, anche se non tutte le opere erano ancora terminate.
I due parroci faticarono non poco a raccogliere i fondi per coprire le ingenti spese per la nuova costruzione. A tal proposito si aprì un forte contenzioso con la Collegiata di S.Giovanni di Monza ed i suoi “fabbricieri”(amministratori). Tutta la comunità della Santa aveva infatti individuato nella chiesa monzese la prima e principale fonte di finanziamento in forza del suo ruolo di “chiesa madre” verso la “chiesa figliale” di S.Anastasia. I fabbriceri di S.Giovanni si guardarono bene dall’accogliere tale richiesta di sovvenzione e la disputa che ne seguì arrivò fino ai più alti organi amministrativi e giudiziari dello Stato. Prevalsero comunque le argomentazioni della curia monzese e anche il Magistrato politico camerale riconobbe in fine che con l’atto del 1578, con il quale venne costituita la parrocchia della Santa, separandola da Monza, si stabiliva che d’ora in avanti a sostenere tutte le spese per la nuova parrocchia sarebbero stati i parrocchiani della stessa e quindi….!!!
I “santesi” provarono a bussare anche ad altre porte, a cominciare dal “Fondo di religione”. Si trattava di un ente governativo che gestiva i beni e le rendite dei tanti ordini religiosi, conventi e monasteri soppressi in forza dei decreti imperiali emanati nella seconda metà del ‘700. Anche qui non si riuscì ad ottenere alcun sussidio. Il Fondo si dichiarò privo delle risorse finanziarie per sostenere l’ingente spesa prevista. Caso mai avrebbe potuto anticipare tale somma a fronte dell’impegno della comunità santese (a cominciare dai suoi più facoltosi esponenti) a restituire entro data certa l’importo.

E qui dobbiamo aprire una nota, non proprio edificante, relativa proprio agli “Estimati” sia della Santa che di Villa San Fiorano. Questi erano i più facoltosi possidenti o commercianti delle comunità locali, che riuniti nel “Convocato” ne costituivano l’organo di governo (la rappresentanza del territorio viaggiava allora sui soli criteri di censo e reddito). Il Convocato della Santa e di Villa San Fiorano (coinvolto in quanto chiaramente soggetta alla parrocchia di S.Anastasia) si riunì in data 11/8/1791 su convocazione della Regia Cancelleria Distrettuale con all’ordine del giorno proprio l’edificazione della nuova parrocchiale e soprattutto l’eventuale disponibilità degli stessi Estimanti a concorrere nella spesa necessaria o a obbligarsi per un prestito di pari importo che il Consiglio di Governo era disposta a elargire a un tasso agevolato.

Alla riunione era presente, di persona o per delega, il fior fiore della società villasantese del tempo: i Conti Confalonieri, Scotti e Durini, i Marchesi Recalcati, i Sigg. Tornaghi e Galbiati di Villa S.Fiorano, i nobili Calchi e Loria, ed altri, per un totale di 26 partecipanti. Fatta la dovuta discussione si passò alla “balottazione segreta” che vide la proposta in oggetto respinta con 23 voti contrari e 3 favorevoli. I nostri Estimati si limitarono a sollecitare nuovamente il ricorso al Fondo di Religione, che come visto non ebbe alcun esito positivo.
A fronte dunque di un unanime convincimento della assoluta necessità e urgenza di dotare la parrocchia di S.Anastasia di una nuovo edificio sacro, i nostri due parroci si trovarono invece di fronte ad altrettanto unanime rifiuto a compartecipare alle spese necessarie. Dobbiamo dire che non si perdettero affatto d’animo e riuscirono comunque a portare a termine il loro progetto.
Dovettero allora far ricorso alle sole risorse “interne” alla parrocchia, cominciando dalle oblazioni dei parrocchiani nelle previste Tabelle delle Questue. Ma la popolazione, fatta di contadini e piccoli artigiani, non poteva certo farsi carico di una spesa così ingente
Arrivarono fortunatamente un paio di sostanziosi “donativi” da generosi cittadini monzesi che riuscirono a soddisfare i tanti creditori che bussavano alla porta della parrocchia. Quando comunque nel 1796 don Spinelli inaugurò la nuova S.Anastasia non solo mancavano ancora alcune opere, a cominciare dalla torre campanaria, ma anche soldi per pagare spese e fatture in sospeso. Il parroco dovette ingegnarsi nel trovare nuove entrate anche con iniziative “originali”. Cogliendo l’opportunità della contemporanea costruzione del muro di cinta del nuovo Regio Parco di Monza, si aggiudicò l’appalto per una parte della recinzione. Chiaramente i lavori furono svolti “gratuitamente” dai parrocchiani della Santa, per lo più nei giorni di sabato e domenica.
Ma tutto questo ancora non bastava. Il parroco Spinelli fu infine costretto a cominciare a vendere beni e terreni del patrimonio della parrocchia. Oltre a tre piccoli pezzi di terreno e un paio di case, si decise, sciaguratamente, di alienare anche il sedime dell’antica chiesa con tutto l’edificio compreso (che nel frattempo era stato riparato e restituito ad alla sua funzione sacra). Dopo ben milletrecento anni di “onorato servizio” veniva quindi abbattuta nei primi anni dell’800 la ”antica” S.Anastasia, sacrificata all’impellenza debitoria scaturita dall’edificazione della “nuova”. Da questa ondata di smantellamento del patrimonio della parrocchia si salvò la “casa parrocchiale”, adiacente alla vecchia chiesa (in affaccio sulla via Confalonieri) e che resisterà sul sito fino al 1962.
Alla fine comunque i tanti sacrifici della comunità di tutti i fedeli fu premiata e nel 1809 la nuova chiesa fu terminata con tanto di campanile, campane e orologio da torre.
LA GELSICOLTURA
E’ arrivato il momento di affrontare l’importante argomento della gelsicoltura, che tanta parte ebbe nella storia economica e sociale non solo della Santa, ma di tutto il nostro territorio come del resto di tutta la Brianza e della Lombardia.
In Lombardia la bachicoltura e di conseguenza la gelsicoltura e la filatura ricevettero il primo grande impulso nel XVI secolo, soprattutto ad opera di Ludovico Sforza (non a caso chiamato appunto “il Moro”, dal termine dielettale “moron” che indicava il gelso). Questa attività trovò qui un contesto perfetto, dati il clima e le condizioni del terreno che favorivano la crescita del gelso per l’alimentazione del baco da seta e la disponibilità di acqua per le ruote dei mulini che permettevano di far muovere le macchine delle filature e, tra alti e bassi, queste attività toccarono l’apice della quantità e della qualità dei prodotti nella seconda metà dell’Ottocento.
Dopo il suo primo sviluppo negli spazi liberi del territorio urbano, la coltivazione dei gelsi accompagnò la diffusione della “piantata padana” (5) fondata sull’ impianto di alberature ai limiti dei campi e delle proprietà, in filari paralleli ai fossati e ai canali d’irrigazione e di scolo, o alle ripe dei fiumi e dei corsi d’acqua, o nella terra di nessuno fra abitato e coltivo, fra città e campagna. Già con il XVII secolo si determinò così una significativa trasformazione del paesaggio agrario del nostro territorio, e nei rapporti socio-economici del tempo.
Fin dalla prima metà del settecento l’allevamento del baco da seta (in dialetto cavalée) era infatti praticato in quasi tutte le nostre case contadine come in quelle di tutta la zona della pianura asciutta e andava ad integrare lo scarso reddito del lavoro agricolo. Si trattava per lo più di un’attività svolta a margine di quelle agricole, gestita tipicamente dalle donne a livello domestico. In quasi tutti i casi i bozzoli (i “galett”) venivano venduti ai mercanti (spesso milanesi) senza alcun tipo di lavorazione, lasciando la trattura della seta grezza agli stessi mercanti. Questa attività restò per molti decenni tipicamente rurale ed integrativa al lavoro agricolo. Erano ancora tante le braccia richieste per il lavoro nei campi. Solo con la seconda metà dell’800 i setifici industriali cominciarono ad assorbire grandi quantità di lavoratori e lavoratrici sottratti all’agricoltura, che del resto non riusciva più a fornire lavoro per tutti.
Se sappiamo nel dettaglio che a Villa San Fiorano alla metà del 1700 vennero censiti ben 682 gelsi (moroni) e che a metà ‘800 erano diventati ben 6382, altrettanto possiamo ipotizzare per il territorio della Santa, pur non avendo dati così specifici.
Come scriveva Stefano Jacini nel 1856, “le colline e l’alta pianura sono ormai talmente coperte di gelsi che presentano l’aspetto quasi di una selva; non si teme il danno cagionato ai prodotti del sottosuolo, poiché l’ombra del gelso è l’ombra d’oro, come dice il proverbio.” Con un lavoro molto impegnativo, e concentrato in poche settimane, i contadini si garantivano un’importantissima entrata di contanti dopo le ristrettezze della stagione invernale.
Alla Santa, come del resto in tutta la Brianza, non c’era casa o cascina dove le nostre famiglie non organizzassero tutto il ciclo produttivo dei bozzoli, utilizzando tutti gli spazi di tempo “rubati” ai lavori domestici o a quelli nei campi. Nei contratti agrari d’affitto si prevedeva di solito la divisione a metà tra contadino e proprietario dei cosiddetti “frutti da brocca”, cioè la vite e la foglia di gelso. Spesso però il contadino doveva ricorrere anche alla quota di gelso del padrone, sdebitandosi poi con una parte dei “bigatti” di sua spettanza.
La lavorazione del baco comportava una continua attenzione ed impegno da parte dei contadini. Si cominciava con l’acquisto dei semi-bachi da conservare in luogo caldo e asciutto (a volte in sacchetti appesi al collo delle donne).
Questi piccoli insetti grandi come formiche venivano posti su tavole a graticcio (i tàul di cavalée) foderate di carta per evitare che i piccoli cadessero e ricoperte da foglie di gelso, che prima dovevano comunque essere pulite.
Queste tavole si sovrapponevano ad una distanza di circa 50 cm per costruire una sorta di castello (scalòn o scruséra). Il locale impiegato più spesso per la bachicoltura domestica era in primo luogo la cucina, comportando così una stretta convivenza dei contadini con i loro bachi. Anche altre stanze potevano servire purché fossero dotate di camino, o comunque di una fonte di calore regolare.

I castelli erano quasi sempre incastrati tra il pavimento e il soffitto, fissati in maniera solida soprattutto per sostenere il peso delle persone che vi si appoggiavano con la scala, nei momenti della distribuzione delle foglie e della pulizia dei ripiani più alti. A queste attività di alimentazione e pulizia si dedicavano le donne. I bachi dovevano mangiare spesso e a ore fisse e in età adulta le donne dovevano alzarsi anche di notte per rifornirli di foglie di gelso. Altrettanto impegnativi e ricorrenti erano i lavori di pulizia delle tavole (escrementi, residui alimentari e mute), assolutamente necessari per evitare possibili malattie dei bachi, già abbastanza delicati.
Arrivati al mese di giugno, nelle ultime settimane del loro sviluppo, i bachi occupavano sempre più spazio. Allora bisognava aggiunge altre tavole e i contadini, per lasciar posto ai bachi, che spesso costituivano l’unica ricchezza della famiglia, erano costretti a trasferirsi anche nelle stalle. Poco prima che i bachi cominciassero a filare i bossoli bisognava preparare “il bosco” (ul bòsch). Questo veniva realizzato con dei rametti di legno, spesso di ravizzone o erica, fissati ai bordi delle tavole. Qui i bachi si arrampicavano e deponevano il bozzolo. Dopo circa una settimana si raccoglievano i bozzoli dal ‘bosco’ (se catava i galèt). L’operazione vedeva impegnata tutta la famiglia e si svolgeva quasi sempre a mano.

Qui finiva il lavoro domestico dei contadini. Le “gallette” venivano cedute a vicine filande o a commercianti del posto o anche portate ai mercati dei bozzoli.
Questa forte produzione di seta rappresentò chiaramente il presupposto per il fiorire fin dalla metà del 1700 in Lombardia di filande e tessiture che costituirono un primo importante nucleo di industrializzazione della regione. Con il 1800 questa produzione iniziò a diffondersi anche nelle zone rurali, per l’abbondanza di manodopera e di energia idraulica. Ben presto tutta la zona della Brianza vide il forte sviluppo dell’attività dell’industria serica, a cominciare da Monza. La Santa, come del resto Villa San Fiorano, non videro l’insediamento sul proprio territorio di filande per la seta, anche se molte furono le ditte tessili che via via vi si installarono. A metà ‘800 tra la Santa e Villa San Fiorano si contavano circa quaranta telai in opera.
Con i primi decenni del ‘900 ci si avviò comunque verso il declino di tutta la “filiera della seta”, e non solo nel nostro territorio. Nella seconda metà dell’Ottocento la gelsibachicoltura italiana venne colpita nel giro di poco tempo dal diffondersi della pebrina, una malattia endemica del baco, e della cocciniglia del gelso (diaspis pentagona), un parassita che portava in molti casi la pianta al disseccamento. A ciò si aggiunsero cause più strutturali quali la concorrenza di seta estera (più economica e di migliore qualità) e delle prime fibre artificiali. Mentre le foglie di gelso perdevano di valore sul mercato, si procedette via via ad estirpare anche le piante per favorire la meccanizzazione agricola nei campi. Il paesaggio del nostro territorio si modificò radicalmente, perdendo di biodiversità e appiattendosi in una più banale distesa di campi a monocultura. Erano le ricadute “ambientali” della rivoluzione socio-economica che stava investendo la nostra provincia con l’intenso processo di industrializzazione e di urbanizzazione del territorio.
NOTE
(1) Vedi articolo : “C’erano anche Sesto Giovane e Taverna della Costa”
(2) I parroci iniziarono ad annotare su appositi registri i battesimi, matrimoni e morti dei loro parrocchiani con le disposizioni del Concilio di Trento del 1564. Questa pratica rientrava nel più ampio ruolo assegnato ai parroci di controllo e guida dei loro fedeli. Rappresentò comunque l’opportunità di costituire presso le parrocchie un patrimonio di dati anagrafici importantissimo per le ricerche storiche e genealogiche.
(3) Vedi articolo : “Il culto dei morti”
(4) Vedi articolo : “La Santa (parte I°)”
(%) Vedi articolo : “Villasanta terra di vino”
BIBLIOGRAFIA
- Archivio Storico Milano = fondi : Catasto + Atti Governo,Finanze Apprensioni
- Archivio storico Diocesano Milano = Visite Pastorali
- Archivio storico civico di Monza + Fondo Cisalpino Monza
- Giuseppe Maurizio Campini = “Chiese di Monza, del suo territorio e della sua corte(1773)” a curadi R.Cara – Univ.Milano collana il Filarete – 2011
- Pirovano M.=”La gelsibachicoltura in Brianza: tecniche, credenze, rituali, in De Battista A., Contadini dell’alta Brianza” Cattaneo, Oggiono 2000.
- Renzo P. Corritore = “Storia economica, ambiente e modo di produzione. L’affermazione della gelsibachicoltura nella Lombardia della prima età moderna” Mélanges de l’Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée” (MEFRIM),