Parlando di Villasanta come una “terra d’acqua”, in questa seconda parte ci soffermiamo sui Mulini e i Campari.
I primi rappresentarono per secoli un elemento determinante non solo del paesaggio villasantese ma anche della sua storia socio-economica. Fin dal primo Medioevo il Lambro e le sue rogge videro il fiorire di mulini sul loro corso e in tal senso anche le acque che attraversavano il nostro territorio si arricchirono della presenza di queste attività. I mulini di Sesto Giovane, i “Mulini Asciutti” e il mulino della Santa sulla Gallarana furono, con i loro “molinari”, i testimoni villasantesi delle più moderne tecnologie del tempo, fonti di ricchezza e rilevanza sociale.
Altrettanto importante fu poi la figura dei “Campari”, i custodi di queste acque. Essi avevano la fondamentale funzione di verificare il corretto uso delle acque dei fiumi e delle rogge da parte degli utenti, assicurando una corretta manutenzione dei loro corsi e dei manufatti che su queste insistevano.
I MULINI
La Lombardia costituì da sempre un contesto favorevole per l’insediamento dei mulini ad acqua e al suo interno ancor di più lo fu tutta l’asta del corso del Lambro.
Vi ricorrevano infatti alcune delle condizioni più propizie: la natura del corso del fiume, la presenza di coltivazioni a cereali e insieme di agglomerati urbani che ne garantivano un buon mercato di assorbimento. Non a caso nel Medio Evo ritroviamo proprio qui alcuni dei primi insediamenti di queste “macchine da macina”.
Il primo mulino di cui si ha notizia è del 768 quando il prete monzese Teodaldo nel suo testamento (lo stesso nel quale lascerà la “vignas longas” alla chiesa di S. Anastasia) farà dono proprio di un mulino in Monza alla basilica di S. Agata.
Da questa epoca in poi il paesaggio del Lambro sarà via via caratterizzato dalla presenza sempre più fitta delle tipiche costruzioni dei mulini con il loro corredo di canali, rogge e chiuse, tanto che alla fine del Medio Evo tutti i siti più favorevoli per il loro insediamento erano già occupati e in opera.
La diffusione dei mulini poté contare da subito sul principio per cui le acque rappresentavano un bene pubblico di libero accesso, fatto salvo il diritto e il pregiudizio di terzi. Così ad esempio gli Statuti di Monza del 1300 (che si rifanno a redazioni precedenti con evidenti collegamenti con quelli milanesi) stabiliscono che, salva la possibilità per chiunque di attingere acqua dai fiumi, solo ai proprietari dei mulini era permesso di sbarrare con chiuse il corso della corrente del Lambro per derivarne rogge che azionassero i mulini, mentre non era lecito farlo da parte dei proprietari dei campi per irrigarli. Anche quando dal ‘500 in poi le norme sull’uso delle acque si fecero più restrittive (per il probabile forte aumento del loro sfruttamento) le “Constitutiones Mediolani” mantennero sempre una sorte di protezione pubblica sui “molandini” per la loro evidente importanza sociale e rilevanza economica.
I mulini venivano costruiti sulla riva del fiume, per lo più dove questa sporgeva nell’alveo o in prossimità di “insule”. Raramente le ruote venivano azionate direttamente dalla corrente del fiume e si ricorreva invece a derivazioni artificiali (a volte naturali preesistenti) che portavano l’acqua dal fiume alle ruote, per poi ricondurla nel fiume: “le rogge molinare”.
L’elemento giuridicamente più significativo del mulino era la clusa (chiusa) che permetteva il deflusso delle acque dal fiume alla roggia. Il diritto a realizzarla determinava la possibilità di utilizzare a qualunque fine le acque del fiume.
La già citata “Carta del Barca” del 1615 (°) ci trasmette un’immagine immediata di quanto fitta fosse a quella data la presenza dei mulini sul tratto brianzolo del Lambro. Questi impianti potevano essere utilizzati per processi di lavorazione diversi: dalla macina dei cereali alla follatura dei panni, dalla realizzazione della carta al taglio del legname, fino alla lavorazione dei metalli e delle armi. Fin dal tardo Medio Evo del resto i mulini rappresentavano una delle più alte fonti di reddito, ben superiore alle rendite fondiarie correnti ed anche il loro valore capitale era tra i più elevati in campo immobiliare.
Possedere un mulino, amministrarlo con cura e precisione poteva diventare una fonte di accumulazione di capitali non indifferente. La costruzione dell’impianto doveva comportare spese notevoli, come del resto la manutenzione, ma i ricavi erano decisamente elevati. Studi in questo campo hanno calcolato che se paragonate alle rendite fondiarie, quelle garantite da un mulino pareggiavano quelle ricavate da 150/250 pertiche (0) di buon terreno agrario. Proprio per queste loro caratteristiche costituirono sempre una fonte rilevante di gettito fiscale, godendo quindi di particolari attenzioni da parte dell’erario statale. Oltre alle imposte dirette sui loro redditi e patrimoni, i mugnai svolgevano il ruolo di esattori per conto dello Stato dei tributi sui loro prodotti (tassa sul macinato). In particolare i mulini erano soggetti alla cosiddetta “annata”, tassa che veniva imposta non annualmente ma saltuariamente in funzione delle esigenze dell’erario statale, diventando fonte di continui contenziosi e lamentele. Ad esempio l’imposizione dell’annata del 1638 aveva sollevato l’immediato ricorso dei proprietari dei mulini dell’alto Lambro che basavano la loro pretesa di essere esentati dall’annata sul carattere privato delle acque del Lambro e sulla considerazione che non si potesse dire “ fiume Regale ma si bene di rapina….atteso che se non in caso di piovine copiose et spesse non si può ordinariamente macinare”. Le deposizioni rese da numerosi testimoni sul carattere discontinuo delle acque del Lambro non avevano smosso di un pollice il Magistrato che concludeva l’indagine fissando il contributo d’annata in 15 lire imperiali per mola.
Prima di chiudere questa breve introduzione di carattere generale vale la pena accennare ad alcune caratteristiche proprie di questa figura del “mugnaio” o “molinaro”. Fin dal Medioevo a tutta l’epoca moderna questo artigiano/imprenditore rivestirà un ruolo sociale che potremmo definire “interclasse”. Vicino al “signore” e ai ricchi, resterà comunque componente del popolo, anche per la forte componente manuale del suo lavoro. Il molinaro doveva essere portatore tanto di buone conoscenze tecniche e gestionali che di un certo “capitale” per poter sopperire alle spese di manutenzione e conduzione di una macchina complessa come il mulino. Furono guardati sempre con sospetto da tutta l’altra popolazione. Godettero infatti di una diffusa fama di ladri e profittatori. Era del resto per loro abbastanza facile imbrogliare i loro utenti e fare la cresta sul prodotto macinato. Su questo giudizio pesava anche l’invidia che generavano i loro ingenti profitti ma anche la convinzione che lucrassero su un bene di prima necessità quale la farina e il pane.
A VILLASANTA
Detto tutto ciò non possiamo allora che aspettarci di ritrovare anche sul territorio di Villasanta le tracce della presenza di mulini ad acqua. Ed infatti questi caratterizzarono per secoli il Lambro e le rogge in questo tratto del suo corso e costituirono importante fonte di ricchezza e sviluppo per tutto il nostro territorio.
Abbiamo alcune prime testimonianze di questa presenza in antichi documenti precedenti il primo millennio cristiano. Essi non ci danno una localizzazione precisa di queste strutture ma ne danno una indubbia prova di esistenza. Il primo documento risale al lontano 879, anno del testamento dell’arcivescovo di Milano Ansperto nel quale tra gli altri beni lascia ai suoi eredi un “molendinum unum constructum in fluvio Lambri in loci et fundis Villola” (un mulino costruito sul Lambro in località Villola).
Questo toponimo Villola per tutto il Medio Evo ha contrassegnato un tratto di territorio che
per quanto non ben delimitato possiamo però identificare con i terreni a sinistra del Lambro all’altezza de La Santa fino a san Fiorano, ai cui confini con Monza sopravvive ancora la cascina Villora. (Nel Codice Beda dei primi del 1000 la chiesa di S.Anastasia viene collocata “in Villola, propre castrum de ipsa Villola”) (#)
L’altro documento riguarda la suddivisione dei beni tra i membri dell’importante famiglia monzese dei Rabbia del 1193 in cui si cita un mulino in “Coliate”. Come per Villola anche per il toponimo Coliate non è possibile definirne con precisione i confini ma in origine corrispondeva con buona approssimazione all’attuale San Giorgio e al territorio alla destra del Lambro (#).
Quindi già in pieno Medio Evo possiamo collocare alcuni mulini sul tratto del Lambro di nostra pertinenza, sia sulla sponda destra che sulla sinistra del fiume.
A conferma di quanto si svilupperà questa attività nel nostro territorio può essere interessante notare come da documenti censuari del ‘500 relativi al contado di Monza, riportanti i nomi dei Capifamiglia de La Santa e di Villa con S.Fiorano con le loro occupazioni, su circa una quarantina di nuclei ben cinque risultavano avere i capifamiglia “molinari”. Se a questi si aggiungono i mulini di Sesto Giovane non compresi nei suddetti documenti, si evidenzia l’importanza già a quella data dell’attività molitoria nel panorama socio-economico del nostro paese.
I MULINI DI SESTO GIOVANE
a sinistra la mappa del Catasto Teresiano del 1721 riportante i mulini di Sesto Giovane;
a destra una vecchia foto dei primi decenni del '900 riproducente le grandi pale del mulino (tratta da "Villasanta, immagini ritrovate" di B.Ferrara)
Risale ai primi del ‘400 una delle più antiche documentazioni che ci attesta una dettagliata presenza di mulini nel territorio di Villasanta.
Con un Instrumento del 1421 il Convento di San Martino di Arcore affitta a livello a un certo Baldassare de Bernadigiò (Bernareggio) beni in località San Giorgio e Sesto, Pieve di Vimercate. Tra questi troviamo proprio un’isola con due mulini, uno a mane (est) e l’altro a sero (ovest) del fiume Lambro. Con il termine “insula” si intendeva quel pezzo di terra compreso tra il fiume (Lambro) e la “roggia molinara”, al servizio delle macine. I due mulini sul Lambro vengono descritti come in disuso e diroccati e situati “in curie Sexto plebem Vicomercati”, località che possiamo identificare nell’attuale Sesto Giovane di Villasanta, proprio a ridosso del confine a Nord con Arcore. A quella data il Convento “navigava in pessime acque” tanto che nel 1455, ridotto in povertà e con la sola presenza della Badessa, fu sciolto e accorpato al Convento di S.Maria d’Ingino di Monza. Il fatto poi che a quella data tali mulini si presentino fortemente deteriorati sta ad indicare tanto l’incapacità del Convento di far fruttare i suoi beni quanto una loro probabile presenza risalente a non pochi anni prima, collocando la loro datazione come minimo alla metà del XIV secolo.
Ritroviamo questi mulini in successiva documentazione del ‘500 (atti del 1506,1517,1540 e in particolare del 1555) dove viene certificato il loro passaggio di proprietà (non sappiamo se diretta o livellaria) dal Convento alla famiglia Gallarani di Milano, che abbiamo già incontrato in relazione alla costruzione a fine ‘400 della loro Roggia Gallarana a Villasanta (*). Non possiamo datare con precisione questa transazione ma è verosimile ipotizzare che non sia stato proprio un caso che i Gallarani abbiano deciso nel 1476 di collocare la bocca della loro roggia sul Lambro proprio alla Santa in località Sesto Giovane,
magari potendo già contare in questo sito sulla presenza di mulini e terreni di loro proprietà. Il passaggio di proprietà è comunque anteriore al 1506, data del testamento di Fazio Gallarano nel quale viene assegnato al figlio Francesco un mulino ad Arcore sul Lambro, vicino alla bocca della roggia Gallarana (molendinum iacens in territorio de Arcul super flumine Lambri, prope buccam rugie noncupate de Galleranis). Pur essendo qui collocato ad Arcore (i confini erano decisamente ballerini e i redattori degli atti non sempre ben documentati) si tratta del mulino in oggetto, già quindi a questa data nel patrimonio dei Gallarani.
Va segnalato come nel riferirsi a questi impianti a volte troviamo l’indicazione della presenza di un mulino, a volte di due. In effetti (come era in uso ai tempi) il riferimento importante era dato dal numero dei “rodigini” (1) o delle ruote presenti sul sito. In questo caso complessivamente l’impianto poteva contare su sei rodigini. Si parlava allora indifferentemente di un mulino a sei rodigini o di due mulini da tre rodigini ciascuno.
Nel 1561 i due mulini risultano affittati rispettivamente a Giorgio Da Ponte e a Pietro Boren (Borroni ?) che pagano di fitto ai Gallarani lire 116 e 160 (In altri casi il pagamento era in natura, in misura di once di frumento, miglio o segale).
E’ poi del 1586 l’Investitura semplice di affitto del mulino da parte dei Gallarani al molinaro Bernardino De Dossi. Qui abbiamo il dettaglio delle condizioni del contratto d’affitto. Il conduttore dovrà pagare ai proprietari per cinque anni un fitto annuo di 500 lire imperiali più le cosiddette “Appendizi” :
- 1 porco di 120 libre da consegnare alla casa dei Sigg. Gallarani a Carugate ogni Natale (se peserà di più la differenza sarà scalata dal fitto);
- 6 paia di capponi a San Martino;
- 2 paia di anitre e 10 pollastri grassi alla festa di S.ta Marcellina;
- 12 uova di gallina a Pasqua di Resurrezione.
A carico del conduttore restavano poi le spese di ordinaria manutenzione del mulino e dei terreni circostanti mentre ai proprietari competevano le spese per “i ferramenti ed i legnami grossi”.
Questi mulini come tutti quelli a sud di Sesto Giovane fino a Monza dovevano patire delle ricorrenti penurie d’acqua che si generavano a valle delle bocche delle diverse rogge che dal Lambro si partivano proprio all’altezza di Sesto Giovane: La Ghiringhella, la Gallarana e la roggia di San Giorgio.
A tal proposito sentiamo cosa dichiara nel 1629 Pieto Borroni di anni 52, da trenta anni molinaro presso questo mulino “….che Diovolesse che fosse di sopra al detto bocchello (della Gallarana) che valerebbe il doppio poi che detto bocchello è tanto sopra il fondo del Lambro che scorre nel detto bocchello si che il mulino e gli altri che a questo seguono patiscono mancamento d’acqua…”. Il Borroni dichiara anche di pagare di fitto ai Gallarani le stesse 500 lire pagate nel 1586 dal De Dossi.
Abbiamo del resto già accennato in altra sede (Articolo sul “Il Lambro e le sue rogge”) come dalla fine del ‘400 gli utenti monzesi delle acque del Lambro, sia per irrigazione che per i mulini, aprirono una serie continua di contenziosi con i proprietari di queste rogge (le famiglie Gallarani e Ghiringhelli) che per diversi periodi dell’anno lasceranno all’asciutto il Lambro e i suoi utenti a valle
(G.Carmignani - Museo Lombardi - Parma)
I SUCCESSIVI CAMBI DI PROPRIETA’
Con la seconda metà del 1600 assistiamo ad un progressivo declino del patrimonio dei Gallarani. Anche i due mulini in oggetto rientrarono in questo processo di alienazione dei beni della famiglia. Nel caso del primo dei due mulini siamo in presenza di un serie curiosa di compravendite. Nel 1671 infatti i fratelli Giacinto e Orazio Gallarani vendono il mulino in “territorio Sancta, sive Sexti Joannis Curiae Modoetiae” per ben lire 11600 ad un certo Antonio Martignano. Nel 1674 il priore del Monastero di S.Girolamo di Castellazzo dichiara che il Martignano è unicamente un “prestanome” dello stesso convento, reale proprietario del mulino, E’ da notare come il suddetto priore altri non sia che il fratello Paolo dei due Gallarani venditori. Nel 1688 infine il Monastero vende, sempre per lire 11600, il mulino al Marchese Francesco Maria Casnedi. I Casnedi, ricca famiglia milanese, erano nel frattempo subentrati per passaggio ereditario nei beni della famiglia Secchi (tra cui l’attuale Villa Camperio) diventando una delle famiglie possidenti più importanti sul territorio.
Il secondo mulino era di proprietà degli altri fratelli Gallarani, Paolo e Federico, cugini dei suddetti Giacinto e Orazio. Anche questi decidono di liquidare parte del loro patrimonio e nel 1666 vendono questo mulino “alla Sancta” (nell’atto di vendita detto “del Borrone” dal nome del molinaro fittavolo) ad un certo Giovan Battista Mottetto che risulterà procuratore e prestanome dei Marchesi Omodeo. Insieme a questo mulino di Sesto Giovane i Gallarani vendono anche un altro mulino detto “della Folla” sito in territorio di Biassono all’altezza della chiusa della Ghringhella (località più recentemente nota come la “Folletta”).
Il prezzo totale è di lire imperiali 8283, di cui 5500 per il primo e 2783 per il secondo (che sembra non essere in buono stato di conservazione). E’ interessante notare in questa vendita come i due Gallarani dovettero chiedere al Senato milanese deroga dal vincolo di fedecommesso presente nel testamento dei loro avi. Questa figura del “fedecommesso” altro non era che il vincolo che i testamentari ponevano nei loro lasciti agli eredi di non poter alienare i beni trasmessi con tanto di trascinamento del vincolo anche agli eredi successivi. Tutto ciò era finalizzato a conservare il patrimonio familiare di generazione in generazione. Ma per quanto riguarda i Gallarani con la metà del ‘600 gli ultimi eredi non si curarono di tale riguardo e superarono senza grossi problemi tali vincoli, dilapidando il patrimonio avito.
Nello Stato delle Anime (registri anagrafici) della Parrocchia di S.Anastasia del 1674 non si è ancora recepito il suddetto cambio di proprietà. Si cita ancora “al Molino de Signori Galerani” dove troviamo insediati ben tre nuclei familiari: quello di Messer Carlo Radaello, di Antonio Radaello e di Carlo Sala. Il titolo di Messere di Carlo ne fa probabilmente il titolare del ruolo di molinaro e del contratto relativo. Sono in tutto 23 persone che vivono nel mulino/i. E in effetti questo rappresentava il più delle volte anche il luogo di residenza delle famiglie dei mugnai (anzi spesso questa era una condizione vincolante posta nei contratti ). E’ interessante notare come i molinari Radaello li troveremo ancora come conduttori di questo mulino nel 1780, pur se sotto altro proprietario.
Nei registri del Catasto Teresiano del 1721 appaiono correttamente i nuovi proprietari che subentrarono ai Gallarani: i Marchesi Omodeo (dal 1751 Conte R. Boromeo) e i Marchesi Casnedi. Può essere interessante notare come a inizio ‘700 ai due mulini vengono attribuiti “tre rodigini” ciascuno, come già avveniva nelle prime documentazioni cinquecentesche. Il numero dei “rodigini” descriveva con precisione un impianto e la sua rilevanza produttiva ed economica. Nel corso dei secoli quindi questi mulini di Sesto Giovane mantennero sempre la loro capacità produttiva originaria, che non sempre però corrispondeva all’effettiva quantità di macinato che usciva dal mulino.
Nel 1801 una grave inondazione del Lambro provoca in tutto il monzese ingenti danni a case, mulini e campi. I due cittadini (siamo nel periodo della occupazione napoleonica) Vitaliano Confalonieri e Carlo Butti, quali nuovi proprietari dei due mulini in oggetto, risultano tra i tanti richiedenti un rimborso per i danni subiti. I mulini vengono ora denominati “di Pietro Paolo” (di cui non sappiamo però l’origine) ed entrambi sono affittati alla famiglia di molinari Pioltelli, Stefano l’uno e Giovanni l’altro. Nel 1803 il Confalonieri ottiene inoltre il permesso di sistemare “la soglia del suo mulino presso la bocca Gallarana” in modo da non recar danno ad altri utenti.
Il Catasto Lombardo-Veneto della metà ‘800 vede la famiglia Bosisio proprietaria dei due mulini di Sesto Giovane. I mulini risultano ancora dotati di tre ruote (rodigini) ciascuno, ma è significativa la nota apposta sulla loro scheda catastale: “Il mulino è animato dall’ acqua del fiume Lambro la quale è sempre incerta. Quindi per mancanza e deviazioni nei tempi d’irrigazione e per riparazioni si considera che possa rimanere asciutto metà circa dell’anno e perciò sarà da valutare di una ruota e mezza…”.
In questo periodo i due mulini appaiono ancora con la denominazione dei “mulini di Pietro Paolo” e alle soglie del ‘900 i mulini e tutta l’adiacente località si chiamerà “ai Spaditt” (probabilmente dal soprannome dei proprietari).
Questi mulini continuarono a far girare le loro macine fino a pochi anni fa quando intorno al 1995 gli ultimi proprietari (Colombo) chiusero l’attività molitoria dopo più di 600 anni di onorato servizio e il mulino fu abbattuto per lasciare il posto a nuove residenze.
IL MULINO DELLA SANTA SULLA GALLARANA
a sinistra, il mulino nel catasto teresiano del 1721 (attuale via Confalonieri all'incrocio con via Garibaldi)
a destra, il mulino (in primo piano a destra) negli anni '60 oramai privato della sua ruota e con la Gallarana da poco intubata. Si notano ancora i supporti della ruota (foto da "Villasanta, immagini ritrovate" di B.Ferrara)
Scendendo verso Sud lungo il corso della roggia Gallarana troviamo un altro sito storicamente dedicato alla macina dei cereali. Si tratta del “Mulino sulla Gallarana” che si trovava all’altezza dell’incrocio tra le attuali via C.Battisti e via F.Confalonieri, stretto tra questa via e la via A.Negri (che ricalca appunto il corso della Gallarana dopo il suo interramento).
Utilizzando le acque della Gallarana, la comparsa di questo mulino non può che essere posteriore al 1476, anno di realizzazione della roggia. In effetti la prima traccia documentale che ne abbiamo risale al testamento del 1506 di Fazio Gallarano. Nella spartizione dei suoi beni tra i quattro figli, a Federico viene assegnato il diritto a edificare un mulino sulla roggia che fu poi costruito nel luogo della Costa della Santa (“quod quidem molendinum postmodum constructum fuit nomine dicti domini Federici in loco della Costa prope locum della Santa”). Interessante la collocazione nel sito della Costa, che ci rimanda a quella parte del nostro territorio che andava sotto il toponimo di Costa Taverna (o Taverna della Costa) (2)
Di poco successivo è un censimento del 1546 nel quale vengono registrati gli abitanti delle località intorno a Monza. Nell’elenco de “La Santa” troviamo Antonio Legnano molinaro di Fazio Gallarano (figlio di Federico).
Anche questo mulino dunque viene edificato su iniziativa della famiglia Gallarani che probabilmente decide di mettere subito a frutto il suo privilegio di poter utilizzare le acque della Gallarana senza dover pagare alcun dazio o tassa al Fisco ducale, che più volte cercherà di riscuotere le cosiddette “annate dei mulini” dai proprietari che via via si succederanno. Questi però si appelleranno sempre all’originario Privilegio del 1475 concesso da Galeazzo Maria Sforza a Fazio Gallarano.
Per tutto il ‘600 si susseguono documenti che attestano l’attività del mulino e la permanenza dello stesso nel patrimonio degli eredi Gallarani. Vi si avvicendano diversi molinari loro affittuari. Nel 1593 troviamo Alessandro Taliabovi (Tagliabue) mentre nel 1629 Pietro Luca Galbiato, nato alla Santa e di anni 40, dichiara di lavorare nel mulino di tre rodigini di Siglerio Gallarano sulla roggia Gallarana, pagando un fitto di lire 400. Nel 1646 molinaro è Giovan Paolo Tornago.
Può essere interessante utilizzare questa serie di “molinari” villasantesi per accennare ad un aspetto delle loro condizioni di lavoro e di vita: la durata dei loro contratti d’affitto e quindi della loro permanenza presso lo stesso mulino. Dai documenti pervenutici si evince facilmente come presso questo mulino sulla Gallarana si succedano nel giro di circa 80 anni ben quattro molinari affittuari. Buona parte di questi piccoli imprenditori del tempo erano quindi soggetti ad una forte mobilità lavorativa, con contratti d’affitto che a questa epoca si attestavano in una durata non oltre i nove anni. Non era raro il caso di contratti comunque rinnovati di scadenza in scadenza, ma erano anche tanti i casi in cui ritroviamo nel corso degli anni gli stessi molinari in diversi mulini. Ad esempio il padre del citato Pietro Galbiato, Bernardino Galbiato lo avevamo incontrato in un precedente documento quale molinaro nel 1580 presso i Mulini di Sesto Giovane. Questo ramo dei Galbiati era quindi di tradizione molinara e si spostava di mulino in mulino seguendo le opportunità di lavoro e di miglior guadagno.
Solo in pieno Medioevo i contratti d’affitto erano praticamente perpetui e il lavoro di molinaro in una famiglia si tramandava di generazione in generazione presso lo stesso mulino. La proprietà dei mulini era quasi esclusivamente degli Enti ecclesiastici che non avevano né interesse né capacità nella gestione dei loro beni. Si affidavano completamente ai fittavoli che spesso instauravano con il mulino un legame così stretto e prolungato da garantir loro un diritto sul bene quasi pari a quello dei diretti proprietari (“diritto d’uso”). Dal 1400 in poi questo tipo di contratti viene meno e sia gli Enti ecclesiastici che i nuovi grandi proprietari laici colgono il vantaggio di imporre agli affittuari contratti più corti e quindi più facilmente modificabili, chiaramente a loro vantaggio.
Verso la fine del ‘600 anche questo mulino, come abbiamo visto per quelli di Sesto Giovane, passerà di proprietà dai Gallarani, in questo caso, ai Marchesi Recalcati (che dalla metà del ‘600 saranno tra i maggiori proprietari immobiliari della Villasanta del tempo). Già nello Stato delle Anime della Parrocchia di S.Anastasia del 1674 “nel Molino de Signori Recalcati” troviamo due nuclei famigliari: quello di Carlo Villa e di Giovan Pietro Galbiato.
Vale la pena accennare a come, contrariamente a quanto accade per gli altri mulini, per questo sulla roggia Gallarana non ci siamo mai imbattuti in documenti che attestino problemi e lamentele in merito alla scarsità di acque per azionare le sue ruote. Una gestione spesso più che permissiva della chiusa della roggia sul Lambro permise di garantire ai Gallarani prima, e ai successivi utenti poi, un flusso di acque decisamente “soddisfacente”.
Il Catasto Teresiano del 1721 conferma la proprietà sul mulino dei Marchesi Recalcati (quelli dell’omonima Cascina).
Il Catasto Lombardo-Veneto del 1851 registra il mulino di proprietà della famiglia Panceri. Interessante la nota che accompagna questa proprietà : “Il suddetto mulino è azionato dalle acque della roggia Gallarana che è la più certa di tutto il territorio. Quest’acqua viene però distratta tutti i Sabbati e parte della Domenica dalla Madonna di Marzo a quella di Settembre per l’irrigazione dei fondi superiori”. Si conferma qui il favore di cui godeva da sempre questo mulino per essere il primo a fruire delle acque della Gallarana, che attingeva in abbondanza dal Lambro.
Ai Panceri succederanno gli ultimi proprietari Pioltelli che condurranno l’attività fino alla metà circa del ‘900 quando la roggia negli anni 60 verrà interrata ed il mulino abbandonato per lasciare poi il posto anche qui a nuove residenze.
I MULINI ASCIUTTI
a sinistra i Mulini Asciutti sulla roggia Lambretto nelle mappe del Catasto Teresiano del 1721( sulla destra le case de La Santa con la Cascina Bergamina, sul cui retro partiva dal Lambretto la roggia dei Frati);
a destra gli attuali Mulini Asciutti nel Parco di Monza.
Seguendo sempre il corso del Lambro verso Monza troviamo i Mulini Asciutti, attualmente all’interno del perimetro del Parco di Monza in quella parte in origine ricompresa nel territorio de La Santa. Questi mulini utilizzavano le acque della roggia Lambretto (o roggia dei Mulini Asciutti o Antichi) (*) che in effetti svolgeva il ruolo primario di roggia molinara per questo gruppo di pale da macina.
Le prime vicende di questi mulini si intrecciano con le attività dell’antica e potente famiglia dei Bertoli (anticamente Bertori) presente a Milano e Monza fin dal ‘400 e proprietaria di molti beni nel territorio monzese (tuttora nel Parco, vicino all’entrata pedonale del Dosso, è presente proprio un “Ponte dei Bertoli”). Il primo riferimento di cui siamo a conoscenza risale ad un atto di locazione in data 9 Giugno 1400 del “Mulino di S.Anastasia” nel territorio di Monza dell’Ospedale di S. Gerardo a Giovannino de Bertoris (siamo in presenza di uno dei cd “fitti livellari” che, decisamente più complessi di un semplice affitto di beni, erano contratti che trasferivano la “proprietà d’uso” che si affiancava con quasi pari rilevanza alla “diretta proprietà” del bene stesso). Significativa è poi la denominazione con riferimento a S.ta Anastasia non essendo a questa data ancora diffuso l’uso del toponimo “la Santa”.
In relazione a questo mulino dobbiamo citare anche la famiglia De Fidelibus. In un’Investitura del 1444 Damiolo de Fidelibus affitta dal Pio Istituto del Convenio una vigna in Monza. Interessante è che il Damiolo, con i figli Stefano e Beltramino vengono detti “abitanti nel mulino della cassina di S.Anastasia”,mulino che altri non può essere che uno dei nostri Mulini Asciutti. Venti anni dopo nel 1464 ci imbattiamo in una promessa di restituzione di un debito di 7,5 fiorini (con un interesse di 32 soldi per fiorino) da parte di Chico de Fidelibus, figlio del suddetto Beltramino, anche lui “habitans in molandino de La Sancta territorii Modoetie”, A testimonianza dell’atto partecipa anche Antonio de Mordeto, anch’egli abitante nel “mulino de la Santa”. Abbiamo quindi, oltre alla citazione del mulino, anche l’indicazione dei nomi di alcuni dei nostri più antichi concittadini e delle loro famiglie.
Sono poi molti i documenti che attestano per tutto il ‘500 la proprietà dei Bertoli su questi mulini. Tra questi ci sembrano significativi i due ricorsi che Giovan Battista de Bertoris presenta nel 1555 e nel 1560 contro il Regio Fisco che pretende il pagamento delle annate (tasse sui mulini) per suoi beni “in territorio Modoetiae et Sanctae”. Il ricorrente fa presente come i suoi mulini siano definiti tali solo per il nome e non per l’effetto (quo ad nomen possunt dici molendina, non quo ad effectum), poiché la chiusa, realizzata solo nel 1560 a sue spese, dopo il suo ritorno dalla Spagna, in realtà ora è stata distrutta da una piena del Lambro e pertanto i mulini risultano inutilizzati. Si sta parlando proprio della chiusa che derivava il cavo del Lambretto dal Lambro e che verrà sempre identificata come “chiusa dei Bertori”. Si evidenziano così i primi indizi in merito all’origine del nome con il quale sono stati sempre conosciuti questi “Mulini Sciuti”.
In un elenco dei mulini sul Lambro del 1561 ritroviamo “alla Sanchia” tre mulini: due di Giovan Battista de Bertori (di cui uno senza mole) e l’altro del Sig. Lodovico Scotto (Scotti). Quest’ultimo a metà ‘500 comprò infatti dal Bertoli uno di questi mulini della Santa (dovremmo più propriamente dire che acquistò il “diritto o proprietà d’uso” del bene). Del resto sembra proprio che i Bertoli non riuscirono mai a mettere a frutto con soddisfazione l’investimento in questi mulini, lamentando spesso e volentieri le difficoltà nel loro utilizzo.
Vale la pena qui sottolineare come dai documenti prima citati come del resto da tutti i successivi, questi mulini, ora all’interno del Parco di Monza, vengano sempre imputati al territorio de la Santa, ribadendo quindi la loro assoluta pertinenza storica al nostro territorio.
In evidenza sulla sinistra i Mulini Asciutti. Vale la pena notare come il Brenna denomini il nucleo abitato di Villa San Fiorano confinante con La Santa come "La Santa di Sopra" e come "Taverna della Costa" la sua frazione costituita dalle case sul fronte Est dell'attuale via Mazzini.
Nei successivi elenchi dei mulini sul Lambro dei primi del 1600 non ritroviamo più alcuna presenza della famiglia Bertoli (che del resto a questa data si era liberata anche di tutti i vasti terreni adiacenti ai mulini stessi). Subentrarono nuovi proprietari: i F.lli Scotti di Milano (già presenti dal ‘500), la famiglia Pellizzoni (mercanti di Monza) e, cosa più interessante, anche un certo Francesco Galbiato (detto il Badinolo).
Qui è significativo segnalare come in un documento del 1629 questi dichiari di esercitare il mestiere di molinaro in quel mulino di sua proprietà (d’uso), acquistato due anni prima per 4500 lire. Rappresenta quindi la rara eccezione di un artigiano che lavora in un impianto di sua proprietà, e non in affitto da uno dei soliti grandi proprietari, nobili e non, laici o religiosi, per lo più residenti a Milano piuttosto che a Monza. Ma il buon Galbiati, creatosi con il suo lavoro il capitale, ben presto lo metterà a frutto e già nel 1674 il mulino dei Galbiati alla Santa risulterà in affitto a Messer Camillo Pirovano.
A questa data comunque i problemi relativi al buon funzionamento di questi mulini restano tutti confermati se non accresciuti. Portiamo a testimonianza quanto dichiarato nel 1650 dal delegato del Tribunale, Coadiutore C. Oldone nella sua relazione a seguito di sopralluogo proprio presso questi mulini per verificarne il giusto valore. Il Coadiutore conferma non solo lo stato di abbandono e inattività del mulino dei Pellizzoni, ma lo estende anche all’altro dei Signori Scotti, anche questo disabitato e improduttivo (non viene citato il terzo mulino dei Galbiati). Eguale stato di abbandono vale anche per il cavo della roggia che azionava i mulini (il Lambretto) “che non conduce, n’è più abile a condurre acqua di sorte alcuna e nel quale ci è l’erba alta più d’un brazzo”. L’origine di questo stato così desolante sta nella rottura e completa rovina della chiusa “detta dei Bertoli” sul Lambro che alimentava la roggia e da questa i mulini a valle. Sullo stato delle cose il Coadiutore Oldone interpellò alcuni testimoni del posto: Giuseppe Oggioni, Carlo Rubeis (Rossi, pescatore nel Lambro) e Antonio Riva (sarto e sbiancatore), tutti residenti alla Santa. Questi confermarono come la chiusa fosse andata distrutta da una piena del Lambro più di 15 anni prima e come da allora i mulini fossero inattivi. Ma aggiunsero la notizia che il vero problema consisteva nel fatto che i proprietari dei mulini, nella fattispecie i F.lli Scotti e la moglie e il figlio del defunto Carlo Pelizzoni, non si accordavano sul riparto delle ingenti spese necessarie per ripristinare la chiusa e la roggia molinara (Lambretto).
Dopo qualche anno saranno i Marchesi Recalcati ad assumersi l’onere del ripristino della “chiusa dei Bertoli”. Il Lambretto recupera buona parte della sua funzionalità. Ma non si risolvono le controversie finanziarie. Mentre il Galbiati decide di concorrere al riparto delle spese sostenute dai Recalcati, ottenendo così di ricevere le acque per azionare il loro mulino, non altrettanto succede con i Pellizzoni e gli Scotti.
Si rifiutano di accollarsi la loro parte di spese e i Recalcati, appellandosi al Regio Tribunale, dopo lungo contenzioso li lasciano “all’asciutto”. Ma la nuova chiusa durerà poco e sarà di nuovo divelta da una piena del Lambro.
Aldilà del simpatico scorcio che questo documento ci apre su vicende di vita vissuta dei nostri antichi concittadini, risulta a questo punto ancora più chiaro ed evidente da quali fatti e circostanze ebbe origine il nome di questo gruppo di mulini.
Come abbiamo già visto a valle delle bocche della Gallarana e Ghiringhella tutti i mulini sul Lambro fino a Monza patirono spesso penuria di acque, ma in questo caso ad aggravare la situazione si aggiunse la precaria gestione della loro roggia molinara che valse alla fine a questi MULINI il non felice titolo di ASCIUTTI.
Vogliamo qui cogliere l’occasione del racconto delle vicende della “Chiusa dei Bertoli” e dei mulini (Asciutti) ad essa collegati, per riportare la viva voce di alcuni nostri concittadini del 1668 interrogati nel merito sempre dal Coadiutore del tribunale di Milano, Ing.C.Oldone. Questi è interessato all’estimo dei prati lungo il Lambro tra la Santa e Monza (tra il Lambro e la ex SS36, attualmente ricompresi all’interno del Parco di Monza).
Gerolamo Montrasio: “io sono da dieci anni che abito nel luogo di Gernio et prima abitavo in quella terra della Santa nella quale sono nato e ho servito per fattore venti anni continui alla felice memoria dei signori Francesco e Paolo Andrea fratelli Recalcati per li loro beni in questo territorio e doppo anco sono stato a posta da li signori Sechi et sono informato delli terreni che si trovano in questo territorio ….. e questi prati (del Recalcati) cominciano giusto dove l’anno scorso fu fatta di nuovo la chiusa (dei Bertoli) sopra detto Lambro …….. sopra di San Giorgio si cavano fuori dal Lambro tre regge chiamate la prima Ghiringhella la seconda Gallarana e la terza la roggia detta del Signor Conte Barbò et a questa maniera da San Giorgio in giù resta il fiume Lambro per il più asciutto nei tempi più bisognosi de l’aqua per li prati suddetti (ma anche per i mulini) che sono li mesi di giugno luglio et agosto. La chiusa che fecero fare li signori Bertoli era situata in questo territorio della Santa, andando verso San Giorgio (al Dosso) et quella fatta fare dai signori Recalcati l’anno passato, come ho detto, si trova giusto nel sito che era quella dei signori Bertoli (divelta nel 1639) ……. Di due rotture (nel 1668) se n’è fatta una sola per il gran impeto dell’aqua che ha portato via da circa 6 pertiche di prato alli detti signori Recalcati confinanti a detto argine con aver portato quantità di gera (ghiaia) et litta (fango) sopra gli altri prati et strapato diverse piante di poppia (pioppi) ……. Et a volere riparare questo male a mio giudizio v’andavano almeno 300 scudi ….. che ogni anno bisognerà far molte spese, si in far custodir (camparo) detta chiusa in occasione di piene del Lambro, come in farli fare le riparazioni necessarie ….. che quando venivano delle piene del Lambro subito correvo alla detta chiusa ad osservare gli andamenti che faceva la piena et quando vedevo che venivano giù qualche arbore, con delli ramponi di ferro o badili o altro gli tiravo di sopra della chiusa facendogli andar giù et delle volte mi è occorso andare nell’aqua col rischio della propria vita.”
Domenico De Rossi: sopranominato il Bosone, abitante nella Cassina del Pelizzone (nota come Bergamina in via don Galli, ora sostituita da nuova palazzina residenziale) nel territorio della Santa.
“Il mio esercizio è di fare il sbiancatore di tela et pescatore et io son nato in detta cassina del Pelizzone, come vi nacque anche mio padre, et è lontana da questa terra (zona Lambretto) solamente 50 passi in circa et è situata nei prati che sono in questo territorio. Li detti prati s’adaquavano con l’aqua del Lambro quando ve n’eran dentro, del resto non si adacquavano se non col l’aqua che vien dal cielo son venti otto anni che non si son potuti adaquar con l’aqua di detto fiume Lambro poiché dall’anno 1639 passato venne una piena del Lambro che portò via del tutto la chiusa che vi era mediante la quale poi si adacquavano detti prati, che dall’anno prossimo passato si rissolsero per poter adaquare et cavarne del fieno, che peraltro sono infruttiferi, li detti signori Recalcati unitamente con gli altri possessori d’altri pezzi dei prati far riffare detta chiusa …… et poi dalla quadrogessima (quaresima) prossima passata venne un’altra piena parimente del Lambro et fece rottura di qua della chiusa nell’argine di esso ….. et io e molti altri di questa terra andassimo a vedere e vedessimo tal ruina essendo che la mia casa dove abito (ex Bergamina) sarà lontana da detta chiusa poco più di venticinque passi.”
Andrea Tornago: detto il Rizzo, di anni 57 abitante nel Comune di Costa Taverna territorio della Santa.
“Io sono nato in questa terra, come anco vi è nato mio padre, faccio l’hoste (nell’Osteria dei Recalcati nell’attuale via Garibaldi) et il pescatore et il mio primo esercizio è stato di pescatore, et soglio pescare nel Lambro qui vicino……….et mi ricordo aver visto de gl’anni sino quando vi era la chiusa, che detti prati erano del tutto asciutti in maniera tale che nel medesimo cavo del Lambro vi nasceva l’erba che si sarebbe potuto seminare del formentone nel mese di maggio e anco raccoglierlo a suo tempo maturo.”
Antonio Riva: abitante nel suddetto luogo della Santa, di sessanta anni, pigionante in casa del Signor Pelizzone.
“Faccio il sarto et il sbiancatore et sono venti nove anni che abito in questa terra della Santa et prima abitavo al Salice……et io posso dire per verità di aver veduto tre anni continui questi prati del tutto asciutti nelli mesi di Giugno, Luglio, Agosto, Settembre et sino anche di Natale, che li molini che sono sopra detto fiume Lambro (anche i Molini Asciutti) qui di sotto verso Monza, esclamavano perché non potevano macinare per mancamento dell’aqua…..ho ben sentito dire pubblicamente qui per la Santa che a fare la detta chiusa (dei Recalcati) vi siano andate da lire sette milla in circa, et in particolare lo sentii una volta da Filippo figlio di Andrea Tornago detto il Rizzo et da altri che hora non ricordo.”
Da qui al 1721, anno del Catasto teresiano, non intervengono grosse novità. Risultavano censiti due soli mulini: uno di Carlo Schira, che nel 1713 acquista il mulino dai Galbiati, e l’altro di Virgilia Lucini (nata Pellizzoni). Come si vede i Pellizzoni dall’inizio del ‘600 mantennero con continuità una proprietà di questi mulini per quasi 200 anni.
Il valore complessivo a questa data dei due mulini è di 6 rodigini, ben inferiore al totale dei 10 censito ad inizio del ‘600. E’ evidente come le difficoltà patite da questi impianti nel tempo ne avevano ridotto l’importanza e le potenzialità produttive.
Con la fine del ‘700 e la realizzazione del Reale Parco di Monza questi mulini si ritrovarono compresi nel perimetro del Parco e passarono quindi sotto la proprietà demaniale. Fu proprio questo evento che permise ai mulini di sopravvivere fino ad oggi e di rappresentare uno dei rari esempi di macine da grano ancora in azione.
Nel 1834 furono completamente riedificati su progetto dell’architetto G.Tazzini, come gran parte degli edifici che si ritrovarono compresi nel Parco. La nuova gestione “reale” ne ripristinò la piena funzionalità tanto che è ancora possibile ammirare non solo la citata “chiusa dei Bertoli” (in prossimità della cascata del Dosso) ma anche il funzionamento del mulino con i suoi vecchi ingranaggi, visitare i locali dove sono custodite le ruote in pietra usate per le diverse macinazioni e accedere alle due sale di macina e ai controlli delle chiuse. Del resto insieme ai mulini si è mantenuta anche la sopravvivenza della roggia Lambretto, unico canale ancora attivo dei tanti presenti un tempo a Villasanta.
LA FOLLA (O FOLA) DI SAN GIORGIO
Le Folle non erano altro che dei mulini dove la forza motrice dell’acqua veniva utilizzata non per far girare delle mole da macina ma per azionare dei magli per la “follatura” della lana o della carta. Nel caso della lana si trattava di infeltrire i tessuti battendoli con forza, fino a renderli fitti ed impermeabili (ricordiamo come a Monza fin dal ‘400 fiorì la produzione dei panni di lana). Nel caso della carta si procedeva a sminuzzare vecchi panni e fibre vegetali fino a creare una pasta con la quale si produceva la carta.
La fola che qui ci interessa viene citata sia come “folla da panno che da carta”. Si trovava immediatamente sulla destra superato il ponte di San Giorgio (località ancora chiamata “la Folla”). Era servita da una roggia molinara che oltretutto segnerà il confine definitivo tra il comune di Villa con S.Fiorano e quello di San Giorgio, creando una sorta di enclave villasantese sulla sponda destra del fiume Lambro che per il restante tratto fa invece da confine tra i due antichi comuni.
Una prima traccia documentale la troviamo nel censimento del 1537 compiuto dalla Città di Monza su tutto il suo contado. Vengono riportati i nomi di tutti i capi famiglia distinti per comuni e località. Per il nostro territorio si distinguono tre nuclei: La Santa, San Fiorano e la Villa (vecchia) con la Folla. In quest’ultima viene citato Baptista Follador . Da successivi atti sappiamo trattarsi di Battista Della Platea (Piazza). Proprio questo riferimento alla famiglia Piazza ci può portare anche più lontano nel tempo. Sappiamo infatti da un noto documento del 1499 che i fratelli Bernardo e Antonio Piazza chiedono dispensa (3) a Ludovico XII re di Francia e Dux di Milano di poter acquistare un molandino della Santa Terrotorji Modoetiae dai proprietari “Petrus et fratres de Merate”. I fratelli Piazza erano inoltre già abitanti presso il “Mulino del Guado”, località di cui diremo in seguito. Non ritrovando nei successivi documenti traccia di altri molinari della famiglia Piazza a La Santa o a San Fiorano, possiamo azzardare che si tratti proprio dei Piazza follatori a San Giorgio. Sono sempre dei membri di questa famiglia che agli inizi del ‘500 trattavano compravendite di mulini e folle alla Santa con i Ghiringhelli. Ancora nel 1561 un elenco dei mulini sul Lambro segnala la “Folla da panno” di Iacomo della Piazza.
Nell’individuare le vicende di questo mulino ci si è comunque dovuti districare nella confusione determinata dall’addensarsi in questo breve tratto del Lambro di più di una “folla”, spesso con identici proprietari. Di sicuro fin dalla fine del ‘400 era presente un altro impianto simile, poco a nord del nostro, in località detta appunto “della Fola” in territorio di Biassono (di proprietà della famiglia Ghiringhelli), quindi sulla sponda destra del fiume e da noi conosciuta con il nome della “Folletta”. Cresce comunque la confusione quando alcuni documenti sempre del ‘500 sembrano prevedere un’altra folla alla stessa altezza della precedente ma sulla sponda opposta, dove originava la roggia Ghiringhella. Leggiamo infatti che la bocca della roggia era individuata in loco detto del Guadio o della Folla del loco della Santa territorio di Arcore pieve Vimercate” “in dicto loco della Folla de supra dicto loco Sancte”. Questa località altri non è che quella che noi conosciamo come “il Molinetto” in territorio di Arcore (tra Sesto Giovane e Peregallo). E in effetti, anche se i primi documenti relativi alla roggia Ghiringhella ne pongono la bocca nel territorio de la Santa, storicamente questo sito rientrerà ben presto sotto la pertinenza definitiva del comune di Arcore.
Con il secolo XVII la folla comincia ad essere indicata come “folla da carta” forse anche in seguito all’arrivo di nuovi proprietari: prima i Cernuschi e poi, per ramo ereditario, Palladino Crivelli e figli. Nel ‘700 il Catasto teresiano segnala ancora una folla da carta del Sig. Pietro Martire Babusio, il cui padre Carlo già nel 1678 ne aveva acquisito la proprietà.
Lungo tutto questo periodo la collocazione della folla trova diverse indicazioni, da la Santa (o dopo la Santa) a Villa S.Fiorano ma anche in territorio di S.Giorgio, che nel frattempo era assurto a titolo di Comune autonomo (con il catasto Teresiano aggregato a Biassono).
Non può essere comunque contestata la storica pertinenza a Villasanta di questa piccola enclave sulla sponda destra del Lambro.
Da qui in poi tra i molteplici passaggi di proprietà della folla è significativo ricordare quello alla famiglia biassonese degli Osculati ( proprietari fin dal 1756) che vi abitarono e lavorarono a cavallo dell’800. Ed è proprio qui che nasce il più illustre membro della famiglia, Gaetano Osculati.
Questi fu indubbiamente uno dei più arditi e importanti esploratori dei primi dell’800, nonché naturalista e geografo di tutto rispetto, anche se tuttora la sua opera e la sua vita non sono oggetto di studi e attenzioni come meriterebbero. Se ne contendono i natali e la cittadinanza sia Biassono che Vedano, dove in effetti fu battezzato. E dobbiamo dire che i due comuni hanno comunque rivolto all’Osculati onori e riconoscimenti.
Cosa che invece non è assolutamente accaduto per Villasanta che ha totalmente rimosso questa importante figura pur potendosi invece accreditare come suo luogo natale (allora la Fola era sotto il Comune di Villa con San Fiorano). Villasanta potrebbe in effetti vantare la cittadinanza di due tra i più importanti esploratori dell’800: Gaetano Osculati e Manfredo Camperio.
Tornando alle vicende della fola dobbiamo dire che a metà ‘800 il sito viene indicato come Cascina Resega con cartiera ad acqua della Sig.ra Larini ved. Antonini. Di questa denominazione resta tuttora la traccia nel nome della “via della Resega” che portava dalla Santa alla cascina dopo il ponte di San Giorgio.
I CAMPARI
Per capire chi erano i Campari e quali le loro funzioni utilizziamo le parole del Cattaneo che nel 1844 così li descrisse, in relazione anche al ruolo degli Ingegneri:
“dall’intelligenza e attività del primo (ingegnere) dipende la conservazione dei diritti sociali. Egli non li lascia pregiudicare per abuso dei singoli utenti o degli estranj; invigila alle riparazioni e agli spurghi; difende e promove le derivazioni d’acque che scolano da fondi altrui. Ma siccome non può essere sempre sui luoghi, importanti divengono anche le funzioni del camparo d’acqua, il quale è il dispensatore delle acque, secondo le rispettive competenze degli utenti e dei terzi, e veramente può dirsi il braccio della nostra agricoltura irrigatoria. Sin da fanciullo sempre in mezzo alle acque, ch’egli conosce minutamente dalle loro estrazioni e scaturigini fino agli estremi punti delle dispense e degli scoli, acquista un occhio pratico così sagace e preciso su i movimenti e la misura delle acque e gli effetti dell’irrigazione, che ne può condure il riparto e il maneggio con minimo apparato di congegni e di forze, e con un’arte che non s’insegna ma che si trasmette nella pratica da padre in figlio”. (4)
Da queste parole si intende il ruolo fondamentale che questa figura assunse nella gestione delle acque di fiumi e rogge per l’agricoltura e per tutte le attività legate all’utilizzo dell’acqua. Già negli “Statuti delle strade ed acque del contado di Milano” del 1346 è prevista la loro presenza per i fiumi milanesi: Olona, Seveso, Nerone e anche il Lambro (da Crescenzago in su). Erano designati e remunerati dai proprietari e utenti di questi corsi d’acqua (in epoca moderna costituitisi in Consorzi) nel caso di acque private come le rogge Gallarana e Ghiringhella, e invece dal Magistrato Camerale dello Stato di Milano nel caso di acque pubbliche o reali quali appunto quelle del Lambro.
Vigilavano quotidianamente al corretto impiego di queste acque onde evitare che si creassero abusi e scorrettezze da parte di qualcuno dei co-utenti. E del resto litigi e contestazioni, che spesso arrivavano di fronte ai Tribunali milanesi, erano all’ordine del giorno e chiaramente i Campari ne erano sovente promotori o testimoni determinanti, basandosi i Magistrati sulle loro denunce e relazioni.
I motivi del contendere erano diversi: l’utilizzo delle acque non conforme ai tempi e alle quantità previste (danneggiando così gli utenti a valle), la mancata partecipazione al riparto dei costi per riparazioni e manutenzioni. Altrettanto numerose erano poi le dispute in campo fiscale, quando erano in discussione tra il Fisco e gli utenti i pagamenti delle tasse dovute per l’utilizzo delle acque pubbliche.
Spettava a loro far rispettare agli utenti quanto emanato dalle “grida” governative in materia di acque e fiumi, in forza anche dei poteri di polizia di cui godevano. Non a caso per lungo tempo furono anche autorizzati all’uso di armi fornite dal Magistrato che dovevano puntualmente rendere al decadere dell’incarico.
Dai tanti documenti raccolti abbiamo estratto alcuni dei nomi e delle vicende dei Campari che operarono sul Lambro e sulle due rogge:
- nel 1581 Campari della roggia Gallarana i cittadini Giovanni Rimoldo e Dionisio Barlassina, residenti in Ronco di Cernusco Asinario (designati dai Sigg. Alberto Litta, Giovanni e f.lli Gallarani e Fulvio Rabia);
- nel 1582 Camparo della Roggia Gallarana il Sig. Giovan Antonio Ogiono abitante a La Santa (designato però dal solo Fazio Gallarani contro il parere degli altri utenti);
- nel 1698 Camparo del Lambro il Sig. Giovan Battista Polastro di Monza che denuncia la scarsa manutenzione e il degrado delle chiuse delle rogge Gallarana e Ghiringhella con grave pregiudizio per il corretto uso delle acque e ingiunge agli utenti delle rogge di fare i dovuti interventi di riparazione;
- nel 1708 Camparo del Lambro il Sig. Battista Lomazzo, che denuncia al Magistrato la perdita di molte acque alle chiuse dei Mulini Asciutti, dei Mulini del Salice e dei Mulini dei sigg.Pelizzoni e Galbiati;
- nel 1755 Camparo del Lambro il sig. Giuseppe Molteno, di cui viene però richiesta la rimozione dai molinari di Monza per la sua disonestà e scorrettezza nella gestione delle acque e sostituito dal monzese Dionigi Verpelli;
- nel 1758 Camparo del Lambro il sig. Carlo Giuseppe Corda che succede al Verpelli prematuramente deceduto e che riceve le chiavi delle bocche sul Lambro alla Santa dal di lui fratello Giovan Battista Verpelli;
- nel 1775 Camparo della Roggia Gallarana il sig. Paolo Tornago de La Santa che subentra al Corda e ne ritira le chiavi della bocca Gallarana;
- nel 1775 Camparo del Lambro il sig. Giovanni Perego che ritroveremo in questa carica fino al 1802 e che interverrà più volte sia per richiedere lavori di sistemazione sulla Gallarana sia per denunciare perdite di acque per mancati lavori ai Mulini di Valnera.
NOTE
(°) Vedi la cartina completa nella sezione “Cartografia” di questo sito.
(*) Vedi articolo :”Villasanta terra d’acqua: parte 1°” .
(#) Vedi articolo : “Ma tu sei di Coliate o di Villola?” .
(0)
(0) La pertica (composta di 24 tavole) corrispondeva a mq.654,5179.
(1) Con l’antico termine milanese “rodesin” si intendeva originariamente “la ruota” dei mulini. Con il ‘400 si inizia ad indicare anche la portata d’acqua di cui poteva usufruire il mulino per far girare le ruote. Un rodigino corrispondeva alla quantità d’acqua che, cadendo da un’altezza di 1.5 metri, era in grado di muovere una ruota a pale (circa 6 once, ovvero 216 litri d’acqua al secondo). Era quindi il dato più importante per indicare la rilevanza di un mulino.
(2) Vedi articolo : “C’erano anche Sesto Giovane e Taverna della Costa” .
(3) Ciò probabilmente atteneva al fatto che i compratori (Piazza) erano originari di Desio, quindi “non di Monza”. Nella secolare lotta di Monza (come di altre medie città lombarde) per salvaguardare la sua autonomia dalla “città” (qui Milano), si cercò anche di impedire che i capitali “esterni” (in particolare milanesi) potessero acquisire terreni e beni nel territorio monzese.Il particolare stato di autonomia ed indipendenza che queste “quasi città lombarde” (Monza, Crema, Vigevano, Trreviglio, etc) cercarono sempre di preservare nei confronti delle grandi città (Milano, Pavia, Brescia, Bergamo) ne faceva “terre separate ed autonome”. Il tutto chiaramente al fine di mantenere privilegi fiscali e l’autonomia giurisdizionale, a scapito degli interessi che le grandi città volevano imporre su tutto il loro contado.
(4) C.Cattaneo,”Notizie naturali e civili su la Lombardia”.
BIBLIOGRAFIA:
- Documenti dell’ Archivio di Stato di Milano (ASM). In particolare dai fondi :
Atti di Governo = Acque P.A., Censo P.A., Finanze P.A.
Catasto, Fondo di religione - AA.VV. – “I mulini del Lambro- Testimonianze e immagini per un recupero” a cura del Museo Etnologico di Monza e Brianza – 2005
- Luisa Chiappa Mauri – “I mulini ad acqua nel Milanese. Secoli X e XV” in Nuova Rivista Storica 1984
- “1808-2008. Bicentenario della nascita di Gaetano Osculati, Esploratore brianzolo” – Museo Civico “Carlo Verri” – Biassono 2008
- G.Chittolini – “Le terre separate nel Ducato di Milano in età sforzesca” in “Città, comunità e feudi negli stati dell’Italia centro-settentrionale” – Unicopli Milano 19969
- E.Rovida = “Monza terra separata” – Ecig (1992)