Potrà sembrare strano ma la Brianza, e con essa Villasanta, per secoli è stata terra di vino, dove la coltivazione dell’uva ha rappresentato, insieme ai cereali, la coltura più diffusa. Da questi vigneti “a tralcio lungo” si producevano vini quali Il Cruel o il Pincianel che venivano offerti anche nelle tante osterie che abbondavano anche a Villasanta. Di questa tradizione vinicola abbiamo anche testimonianze in letteratura. Possiamo ancora tracciare i nomi dei tanti vigneti di Villasanta e conoscere le condizioni alle quali i nostri contadini lavoravano le terre dei nobili e degli Enti Ecclesiastici. Tutto finisce alla fine dell’800 con l’arrivo della filossera che cancella la gran parte dei vigneti brianzoli, lasciando il posto alla già fiorente bachicoltura. Ma a noi piace ancora pensare che : “A la Santa i moron fan l’uga”
Le origini del vino in Brianza
È proprio da questo tipo di coltivazione che deriva il detto popolare: “Alla Santa (ma non solo) i moron fan l’ùga”, quando la vite era appunto maritata ai gelsi, quasi che si raccogliesse l’uva da questi.
Per quanto ci possa oggi apparire strano tutta la Brianza aveva nella coltivazione dell’uva una delle sue più diffuse colture e questo addirittura da quando gli Etruschi cominciarono ad espandersi nella Pianura Padana.
Furono loro a diffondere il sistema di coltivazione della vite “a tralcio lungo” (rumpus), fatta cioè correre lungo festoni alti sul terreno appoggiati a piante d’alto fusto (pioppi, gelsi, aceri, olmi). Al posto di questi “sostegni vivi” ci potranno poi essere anche “sostegni morti”, cioè semplici pali o pertiche appositamente piantati nel terreno.
La vite disegnava quindi un paesaggio ben diverso da quello che siamo soliti conoscere caratterizzato dalle viti ad alberello basso o a “palo secco”, più proprio della tradizione greca e mediterranea.
Il sistema etrusco aveva il vantaggio di permettere una coltura promiscua: spesso nello stesso campo, insieme alla vite, erano infatti coltivati i cereali.
Quando i Celti subentrarono agli Etruschi mantennero questo sistema di coltivazione della vite, che continuò a prosperare anche in epoca romana. Allora era chiamato arbustum gallicus, ovvero “piantata all’uso gallico” in quanto molto diffusa appunto nella Gallia Cisalpina (Val Padana).
La presenza della coltivazione della vite in Brianza si consolidò e diffuse per tutti i secoli successivi lungo il Medio-Evo fino al Rinascimento, nonostante i vani tentativi dei Longobardi di imporre al loro arrivo in sostituzione della vite la coltivazione della “cervogia”, materia prima per la produzione della birra.
Quando poi dal XV secolo nella Pianura Padana iniziò il recupero di spazi agrari abbandonati e inselvatichiti tramite dissodamenti e bonifiche, la vite divenne parte integrante di quella sistemazione agrario-idraulica chiamata “piantata lombarda”, di cui la “vite maritata” fu probabilmente la più antica tipologia (sperimentata già dal XIII secolo) . Questa piantata consisteva in una striscia di suolo larga circa 4-6 metri posta tra due campi vicini e tracciata attraverso l’apertura di due solchi acquai per mezzo dell’aratro. I campi erano di forma rettangolare larghi circa 30-35 metri e lunghi 80- 100 metri. La piantumazione di filari di alberi sulla piantata aveva molteplici scopi: gli alberi di alto fusto fornivano legname; gli alberi da frutto (meli, pruni, ciliegi, noccioli, nespoli ecc.) erano un’importante risorsa alimentare; i filari di piante come salici e gelsi servivano per la realizzazione di cesti e utensili; le siepi monovarietali (biancospini, prugnoli, rose arbustive) segnavano i confini; le fasce arboreo-arbustive, ricche di essenze spontanee, avevano lo scopo di mantenere salde le rive dei canali; e, cosa che a noi qui più interessa, i filari di olmi, aceri campestri e gelsi servivano da tutori per la vite, i cui tralci, a mo’ di festoni, crescevano in alto tra gli alberi permettendo ai grappoli la massima insolazione.
Vediamo ad esempio la seguente tavola nella quale sono stati estrapolati i dati dei tipi di cultura presenti in alcune Pievi brianzole nel 1558:
È significativo che proprio nella vicina Pieve di Vimercate tra “Aratorio vitato” (campi misti a vigna e cereali, propri della Piantata lombarda) e solo “Vigna” più del 50% dei campi fosse dedicato alla coltivazione dell’uva, con una conseguente forte produzione di vino.
Si può notare come i “vigneti specializzati” fossero poco diffusi in quanto richiedevano un notevole impiego di manodopera ed erano di fatto localizzati soprattutto in zona periurbana in virtù della comodità di accesso al mercato.
Di questa vocazione enologica della Brianza abbiamo numerose testimonianze anche in campo letterario. Basterebbe citare il verso dello scrittore rinascimentale Ortensio Lando – nato a Milano attorno al 1512 – che scrisse delle recondite qualità del vino brianzolo, che sarebbe servito ad incantar la nebbia:
“…Non cavalcar la vernata per Lombardia, se prima non incanti la nebbia et questo sia l’incantesimo: piglia una tazza piena di corso o di «moscatello briancesco» e dirai tre fiate:
Nebbia, nebbia mattutina Che ti levi la mattina, Questa tazza rasa e piena Contro te fia medicina.”
Oppure l’opera del 1711 di Don Basilio Bertucci, il divertente ditirambo “Bacco in Brianza” in cui appunto cita e loda molti vini di Brianza.
E ancora il più famoso “Brindes de Meneghin all’ostaria per l’entrada in Milan de sova S.C.Majstaa I.R.A. Francesch Primm in compagnia de sova miee l’Imperatriz Maria Luvisa” del 1815 di Carlo Porta, dove i brindisi si accompagnano ai vini della Brianza :
Quij grazios – de la Santa e d’Osnagh,
Quell magnifegh de Omaa, de Buragh,
Quell de Vaver posaa e sostanzios,
Quell sinzer e piccant de Casal,
Quij cordial – de Canonega e Oren,
Quij mostos – nett e s’cett e salaa
De Suigh, de Biasson, de Casaa …”
Simboli grafici con i quali venivano identificati sulle tavole del Catasto teresiano (1721) i terreni “aratori avitati” e quelli “aratori avitati amoronati”, cioè delimitati da filari di gelsi (moroni).
Villasanta e i suoi vigneti
In questo contesto brianzolo Villasanta certo non sfigurava, anzi. Se prendiamo ad esempio le tavole del Catasto Teresiano dell’inizio del ‘700 (le prime che ci trasmettono dati certificati e completi) possiamo individuare con precisione quale era la tipologia di coltivazione per ogni lotto di terreno. Ebbene, a Villasanta più dell’80% era destinato a vigne, terreni appunto “aratori avitati”, con una delle percentuali più alte tra tutti i comuni brianzoli. Se ne può avere diretta percezione facendo scorrere la cartina tratta dal Catasto Teresiano presente qui nel Sito nella Sezione “Cartine e Documenti”, con attenzione ai due simboli grafici sopra riportati. Con un po’ di immaginazione possiamo allora figurarci il suggestivo paesaggio che per secoli deve aver caratterizzato queste terre. Un susseguirsi di terreni coltivati, per lo più a cereali, attraversati da lunghi filari di gelsi, di pioppi o altri alberi d’alto fusto, legati da festoni di viti. Ad interrompere questa successione, qualche macchia boschiva, qualche pascolo o ortiera e la presenza umana fatta di cascine e casolari isolati. Il tutto attraversato da un fitto reticolo di rogge e canali, indispensabili per l’agricoltura.
Con la metà dell’800 però il paesaggio cambia. Dalle informazioni raccolte per la stesura del catasto Lombardo Veneto si ricava infatti che nel territorio di Villa San Fiorano (ed uniti) “la parte vitata che esisteva all’epoca del 1823 è stata per intero rinnovata”. Ed in particolare si abbandona il sistema di coltivazione della vite “a ghirlanda” per passare a quello più produttivo della vite “a pianta”. Questa innovazione tuttavia non avrà molto tempo per affermarsi. Anche a Villasanta con l’arrivo della fillossera le viti scompaiono quasi totalmente e a caratterizzare il paesaggio saranno soprattutto i filari di gelsi (Nella sola Villa S.Fiorano già nel 1840 si contano 6.380 gelsi).
Chiaramente le notizie e i documenti relativi alla presenza della vite a Villasanta risalgono comunque a tempi ben più remoti che non il censimento del 1721. Il riferimento ad una vigna, la “vites longas” (la vigna lunga), è contenuto proprio nel più antico documento che ci parla della chiesa di S.Anastasia, il testamento del 768 d.c. del prete Teodaldo di S.Agata in Monza: con esso il sacerdote lascia appunto alla nostra futura parrocchia il beneficio della suddetta vigna (maggiori dettagli nell’articolo “La Santa – parte I°”).
Da una rilevazione sulla superficie coltivata nella terre di Monza del 1530 (2), in Villa San Fiorano viene indicata una superficie di complessive 1.940 pertiche delle quali 670 a vigna (anche se solo un terzo erano quelle effettivamente coltivate, a causa di guerre, passaggi di eserciti e bande armate succedutisi in quegli anni).
Nella cartina sottostante è raffigurata la localizzazione di alcune vigne con la loro denominazione, che aiutava ad individuare i diversi appezzamenti di terreno. Nella legenda è riportato il nome della vigna, le dimensioni in pertiche milanesi (una pertica pari a 654 mq), la data di prima documentazione rinvenuta e la proprietà :
1) VIGNA LONGA
Pt.22- 768 –Chiesa S.Anastasia
2) LA BRANDORIA
Pt.40-1500-ChiesaS.Maurizio Monza
3) VIGNA MELZI
Pt.47-1720- Recalcati poi Melzi
4 )VIGNA BRESSANELLA
Pt.11-1720-S.Maurizio poi Melzi
5) LA MALPAGA
Pt.54 – 1720 – Conti Durini
6) VIGNA CAMPANINO
Pt.12-1850-Congr.S.Michele Mz
7) CAMPO DELLA CROCE
Pt.93-1720-Loria poi Antongini
8) VIGNA DELLA FLORIDA
Pt.53-1850-Ghisoni poi Castoldi
9) IL BONAVAR
Pt.33- 1720- Loria poi Antongini
10) IL CHIOSO*
Pt.40-1345-Canonici S.G.B Monza
11)LA CORVERA
Pt.40- 1650- Conv.S.Martino Monza
12)LA NOVELLA*
Pt.86 – 1496 – Canonici S.G.B Monza
13)VIGNA S.FIORANO
Pt.25- 1542- Conv.S.Martino Monza
14)VIGNA DEL PARADISO
Pt.19- 1720-Loria poi Olginati
15) CAMPO DELLE FOPPE
Pt.43- 1745- Gesuiti di Brera Mi
16)VIGNA S.ALESSANDRO
Pt.45- 1545– Conv.S.Martino Monza
17)IL QUADRO DOSSELLO
Pt.33- 1720 –Recalcati poi Melzi
18)VIGNA DELLA SANTA
Pt.50- 1720 – Fam.Durini
19)VIGNA QUADRINA
Pt.128- 1675 – March.Arbona
20)VIGNA QUADRETTO
Pt.60 – 1675 March.Arbona
21)VIGNA QUADRINA DI SOTTO
Pt.83 – 1675- March.Arbona
22)VIGNA DEL LAMBRO
Pt.31 – 1675 – March.Arbona
23)CAMPAZZO DI SOPRA
Pt.40 – 1675 – March.Arbona
24)CAMPAZZO DI SOTTO
Pt.43 – 1675 – March.Arbona
* Queste denominazioni sono ricorrenti e designano più terreni anche in uno stesso comune
I vini e le Osterie
Ma quale vino producevano e quali vini bevevano i brianzoli e con loro i villasantesi di allora?Non è facile individuare con precisione quale poteva essere la qualità e il gusto di quei vini. Mancavano del resto procedure codificate e controllate per la lavorazione del vino e quindi molto veniva lasciato all’iniziativa dei singoli vinificatori. Abbiamo comunque la possibilità di individuare alcune tipologie ricorrenti di vini prodotti :
Cruel , Crudè, Crodello o Crevello, per lo più da uve nere, era il vino più pregiato che veniva estratto dal tino dopo la prima fermentazione da un foro posto lateralmente, evitando le vinacce in superficie e le impurità del fondo. Il nome indica quindi più che un tipo specifico di vino, quello di migliore qualità. Esso costituiva probabilmente anche la parte di produzione che il contadino doveva cedere al proprietario fittavolo e che da costui era destinata al proprio consumo o alla vendita;
Pincianel, Picianel o Pigianeel: che deriva il suo nome da termini dialettali quali “pinciroeu” (chicco d’uva) o più semplicemente da “pigiato” (nel tino a piedi nudi). Era probabilmente il vino più diffuso, leggero e da consumarsi subito (oggi lo chiameremmo “novello”);
Nell’angolo in basso a sinistra del disegno appare la "Capeleta", l’edicola alla Madonna ancora presente da cui la denominazione popolare del sito come "a la Madunina" (incrocio tra le attuali vie Cavour e dei Mille).
Caspi o Caspio, era un vino di qualità inferiore che si otteneva spremendo col torchio le vinacce rimaste nel tino dopo la spremitura. Restava per lo più nelle disponibilità dei contadini per il loro consumo quotidiano;
Posca, ancora più scadente del Caspi, si ricavava semplicemente lavando con acqua le vinacce rimaste. Ne facevano largo uso i contadini e braccianti poveri.
I vitigni utilizzati erano numerosi e di diversa origine. Probabilmente non erano neanche quelli più adatti alle terre e ai climi brianzoli. In un documento interessante, ma tardivo, del 1876, “Relazione intorno all’operato della commissione ordinatrice dell’esposizione di uve” tenuta il 2 e 3 ottobre 1876 presso il Collegio Alessandro Manzoni di Merate, si elencano i vitigni allora in uso consigliando di abbandonarne la maggior parte in quanto appunto di scarso risultato e, in alternativa, di incrementare la propagazione di alcune varietà quali la cornetta, la barbera, l’uvetta, la malvasia e la barbasina.
A godere di questi vini erano in primo luogo i nobili ed i ricchi possidenti terrieri di Monza e Milano ai quali i massari ed i contadini affittuari dovevano consegnare di solito la metà di quanto prodotto. Erano per lo più destinati al loro consumo familiare e solo in parte alla vendita. Quanto restava a disposizione dei contadini serviva ad integrare lo scarso vitto del popolo e ad alleviare le tante fatiche quotidiane nei campi, regalando qualche momento di allegria e di effimero sollievo.
Ma esistevano anche altri ambiti dove questo vino veniva poi consumato: le Osterie presenti nel territorio. Queste per secoli costituirono uno dei momenti più significativi di socializzazione (solo maschile) per tante generazioni di contadini ed artigiani. Le osterie per secoli furono un luogo istituzionalmente rilevante, poiché servivano per riporre e vendere i beni pignorati e in alcuni casi ci si teneva giustizia. Furono spesso anche la sede dove i diversi funzionari statali raccoglievano informazioni sul territorio e svolgevano i loro interrogatori in merito.
A tal proposito possiamo dire che Villasanta vanta buone tradizioni. La presenza di Osterie o di realtà similari nel nostro territorio affonda probabilmente nella famosa “notte dei tempi”. In particolare vedremo come queste strutture si collocheranno “strategicamente” lungo la Strada Maestra Monza/Lecco e ancora meglio all’altezza del bivio che da questa portava a Concorezzo e Vimercate (attuale angolo via Mazzini-Confalonieri con via Garibaldi). Questo incrocio doveva rappresentare un importante snodo stradale e un frequentato punto di traffico e interscambio.
Queste attività commerciali potevano così contare non solo sulla clientela locale (fatta di ben pochi residenti) ma anche sui più numerosi utenti di passaggio. Questi siti caratterizzarono non poco la realtà socio/economica del territorio se pensiamo a come una parte del nostro paese (tra via Garibaldi e via Bacchelli) venne fin dal ‘500 identificata sotto il nome di “Taverna della Costa” ( o Costa Taverna), proprio per la presenza di un’Osteria (in via Garibaldi) che per la sua importanza divenne il riferimento più caratterizzante sul territorio. Nel Catasto Teresiano del 1721 con “Taverna della Costa” si identifica addirittura un distinto ed autonomo comune che solo a metà secolo verrà aggregato a Villa con S.Fiorano (3)
Le prime notizie documentate relative a osterie villasantesi risalgono comunque al ‘500.
Nel “Censo personale nel territorio di Monza” del 1537 a La Santa vengono citati ben due osti: Giovanni Boxan e Gotardo da Monza.
In un altro Documento del 1546 (4) riguardante sempre il territorio di Monza vengono segnalati a La Santa l’oste Paolo da Casate e a Villa San Fiorano l’oste Ambrosio Crolo.
Nel 1594 i figli Giovan Battista e Alfonso si dividono il patrimonio del padre Conte Girolamo Casati. Tra gli altri beni, a Giovan Battista spetta il possesso dell’”Osteria della Santa”, condotta dalla famiglia Galbiati e che si affacciava sulla roggia Gallarana”. Questa sua collocazione ci fa pensare ad una possibile coincidenza con quella che diventerà l’osteria “sotto il segno dell’Aquila” dei Marchesi Recalcati.
Nel secolo successivo troviamo poi ulteriori conferme e informazioni sulla “vocazione enologica” dei nostri antichi concittadini.
Veniamo a conoscenza dell’esistenza a La Santa proprio di una “Osteria del Papino, con prestino” per la quale nel 1647 Iacopo Antonio Secco (il cui padre Ottavio edificò l’attuale Villa Camperio) acquista dalla Regia Camera i dazi del vino e del pane sul territorio della Santa e di altri comuni per il prezzo di 258 lire imperiali.
Trascrizione del ‘700 dell’ “Atto di vendita dei dazi del pane e del vino” per l’Osteria del Papino del 1647 da parte della Regia Camera a Jacopo Antonio Secco (figlio di Ottavio)
Le gabelle sul vino e sul pane , come su molti altri beni di largo consumo, fin dal 1300 furono uno dei principali strumenti con i quali prima i Comuni e poi gli Stati (in questo caso il Ducato di Milano) riempivano le loro casse. La loro riscossione veniva data in concessione per lo più attraverso bandi periodici. In questo caso Iacopo Secco chiede e ottiene per le sue osterie site a la Santa ed in altri comuni di poter esigere questi dazi previo pagamento anticipato della concessione.
In un ricorso del 1758 alla Commissione per il Censimento i Marchesi Recalcati presentano copia di un “Atto di acquisto dei dazi del vino e del pane” del 1648 (come nel caso precedente ) per diverse località tra le quali due osterie a Costa Taverna e a La Santa, detta Villa con San Fiorano (con esplicita esclusione di quelli dell’Osteria del Papino della famiglia Secchi/Secco). Quella della Santa è la stessa che avevamo visto nel secolo precedente nelle proprietà della famiglia Casati e poi Recalcati (“sotto il segno dell’Aquila” nell’attuale via Confalonieri).
Lunedì 16 Aprile 1667 il Coadiutore del Tribunale di Milano Bartolomeo Aldonus, con l’Ingegnere camerale Richino sono a Villa San Fiorano per un sopralluogo in merito ad un contenzioso di alcuni possidenti terrieri con il Fisco in merito all’uso delle acque del Lambro e delle sue rogge. Il Coadiutore, per acquisire informazioni in merito, svolge interviste/interrogatori ad alcuni abitanti del luogo presso quella stessa Osteria di proprietà dei Marchesi Recalcati tenuta da Lazaro Tornago (che nel 1721 ritroveremo probabilmente sotto il “segno dell’Aquila”).
Nello Stato delle Anime del 1674 (sorta di Registro Anagrafico parrocchiale di S.Anastasia) vengono ancora citati i seguenti siti :
. “Nella casa dei Sig.Recalcati cioè nell’Osteria” dove vive la famiglia di Messere Casaro Tornago
. “Nell’Osteria di Barnaba Seccho” (già vista sotto il nome “del Papino”) dove troviamo la famiglia di Andrea Tornago.
Questi Tornaghi sembrano proprio essere una dinastia di osti e locandieri, se consideriamo in aggiunta che anche un altro Andrea Tornago detto il Rizzo (abitante nella casa dei Recalcati in Costa Taverna), interrogato dal suddetto Coadiutore Aldonus, dichiara di essere soprattutto pescatore (nel Lambro) ma anche oste.
Notizie ancora più dettagliate sulle Osteria di Villasanta ci arrivano dai documenti del Catasto Teresiano del 1721. I rilievi effettuati in questa occasione ci trasmettono informazioni sulla presenza di ben quattro Osterie nel territorio de La Santa e di Villa San Fiorano:
- Osteria con prestino al “Segno del Gambaro” di proprietà dei Conti Casnedi (eredi dei Secchi) in Villa San Fiorano localizzabile nell’attuale via Mazzini e già incontrata sotto il nome del “Papino” (che noi conosceremo in tempi moderni come “Osteria del Pollino”)
- Osteria al “Segno di S.Antonio” dei Marchesi Recalcati sempre a Villa S.Fiorano ( o meglio a Costa Taverna) nell’attuale via Garibaldi;
- Osteria al “Segno dell’Aquila” sempre di proprietà Recalcati a La Santa, localizzabile nell’attuale via Confalonieri;
- Osteria al “Segno dell’arma belgioiosa” della Contessa Barbara di Belgioioso a Villa S.Fiorano anche lei nell’attuale via Mazzini.
Può essere curioso accennare come in questo periodo a svolgere con successo la professione di osti sono i membri della famiglia Perego che con il padre Giovan Battista e il figlio Pietro (ed i suoi fratelli) gestiscono tanto l’osteria del Gambaro che quella dell’Arma Belgioiosa. Come da documento del 1750 i Perego pagano al Conte Casnedi per l’osteria del Gambaro un affitto di 900 lire annue.
La mappa delle Osterie del 1776
La presenza di queste osterie ci è poi testimoniata da un interessante documento del 1776. Nell’Ottobre del suddetto anno Francesco Besesti, Commissario del Magistrato Camerale di Milano, si reca nel territorio della Santa per verificare l’effettivo stato patrimoniale e fiscale delle osterie, reso particolarmente confuso dalla concentrazione delle stesse in un così ristretto ambito e da una annosa controversia tra i Marchesi Recalcati e i Conti Durini, feudatari di Monza, in merito alle competenze sull’osteria “al segno dell’Aquila”. Il Besesti nel tentativo di chiarire una volta per tutte una situazione molto intricata stende una mappa di queste mescite di vino ( contraddistinte da una bandierina a mo’ di insegna e a cui si accompagnava spesso anche la funzione di rivendite di pane) aggiungendovi per ognuna alcune note da cui possiamo trarre interessanti informazioni. Qui di seguito l’immagine del documento e la trascrizione delle note
LE NOSTRE OSTERIE DEL 1776
( a sinistra) SANTA SOTTO DESIO DELLA VILLA S.FIORANO
ARMA DI CASA BELGIOIOSO: Aloisio Giovenzana oste paga lire 540 al sottonotato Perico (Perego) per fitto, si crede compreso il dazio vecchio col obbligo di pagare gli carichi e fare le riparazioni e lire 70 alla Casa Durina per dazio del bollino. Consuma brente 110 di vino (una brenta = litri 75) circa all’anno. Famiglia di n.7 persone.
PRESTINO: Giovan Battista Perico prestinaio paga per fitto di casa ed uso di prestino alla Casa Casnedi lire 100 compreso il dazio nuovo; il fitto della casa è del valore di lire 120 circa; consuma di formento mogge 115 (un moggio = 146 litri) circa all’anno e alla casa Belgioiosa paga lire 350 circa per fitto a livello compreso il dazio vecchio di pane e vino il quale subaffitta al come sopra.
CASA DI CASA CASNEDI: Carlo Robiati oste paga alla Casa Casnedi per fitto dell’osteria detta del Papino e dazi vecchi e nuovi di vino e fieno lire 900 circa comprese pertiche 40 circa prati adaquatori li quali si affittano lire 10 alla pertica; la casa può meritare di fitto lire 180 all’anno; consuma brente 60 circa di vino all’anno; famiglia di n.9 persone.
SANTA CORTE DI MONZA
GAMBARO DI CASA RECALCATI: Ambrogio Tornago oste e prestinaio paga alla Casa Durina lire 180 di grida per gli dazi vecchi di pane e vino e lire 1300 abusive alla Casa Recalcati (che vedranno invece confermato il loro diritto su questa osteria) per fitto, dazio nuovo del pane, dazio del fieno e pertiche 90 prati adaquatori del valore di lire 10 per pertica; consuma di formento circa mogge 60 e brente 70 di vino all’anno; la casa può meritare di fitto lire 150; famiglia di n.6 persone.
( A destra) SANTA COSTA TAVERNA PIEVE DI VIMERCATE
ARMA DI CASA RECALCATI (che affacciava su via Garibaldi): li fratelli Galbiati osti e prestinari pagavano alla Casa Recalcati lire 531 per dazi vecchi e nuovi di pane, vino, fieno e fitto di casa comprese pertiche 18 prato ed una piciola casa per subaffitto; consuma di formento circa mogge 75 all’anno e brente 120 di vino; famiglia di n.17 persone. Presentemente resta accordato a sole lire 395 per fitto e lire 60 all’anno per gli dazi vecchi.
Da questo documento possiamo trarre alcune considerazioni:
- La prima di ordine più generale, è relativa allo stato di confusione “amministrativa” in cui a questa data ancora si trovava il territorio di Villasanta. Appare frantumato in tre porzioni tutte denominate Santa, ma una sotto la Pieve addirittura di Desio nel territorio di Villa San Fiorano, l’altra nella Corte di Monza e la terza sotto la Pieve di Vimercate con la denominazione di Costa Taverna. Da qui a poco tutto il suo territorio rientrerà sotto la Corte di Monza;
- Si conferma poi la particolarità di questo snodo viario villasantese che potremmo definire “l’incrocio del buon vino e del buon pane”;
- Appare evidente il peso “tributario” che gravava su queste attività di “somministrazione”. Si era oramai in presenza di una lunga serie di dazi (del vino, del pane, del fieno, vecchi e nuovi) di cui erano titolari i ricchi possidenti del tempo (Recalcati, Casnedi, Durini) che li scaricavano chiaramente sugli osti a cui affittavano sia “l’uso del dazio” che i locali in cui svolgere l’attività. Ma a pagare in ultima istanza questi carichi fiscali erano gli avventori (per lo più popolari) che si vedevano colpiti in beni di prima necessità quali il pane e il vino;
- Confrontando i nomi degli osti qui citati con quelli presenti in altri documenti sempre inerenti questo oggetto, possiamo verificare come a metà ‘700 si fosse in presenza di una forte “mobilità” di questi artigiani/commercianti. La durata dei loro contratti d’affitto era decisamente breve (circa tre anni) e non sempre venivano confermati. E’ vero che spesso ricorrono i nomi di membri di famiglie (Tornago, Galbiati, Perico) che svolgevano questa attività come tradizione famigliare e che passavano da un’osteria all’altra;
- In questo documento l’osteria dei Marchesi Recalcati in via Confalonieri è detta “del Gambaro” mentre dai rilievi del Catasto teresiano di poco antecedenti è detta “al segno dell’Aquila”.Il Catasto indica invece come l’osteria “al segno del Gambaro” quella dei Casnedi in via Mazzini. E’ difficile stabilire quale dei due documenti abbia ragione, anche se si tratta comunque di una questione di non particolare importanza.
Abbiamo qui anche l’indicazione della quantità di vino che veniva consumata ogni anno in queste osterie. Si andava dal minimo di 60 brente (4500 litri) del “Papino” fino alle 120 brente (9000 litri) del “S.Antonio” in via Garibaldi. Il consumo totale annuo nelle quattro osterie era di 23.250 litri di vino, imputabili più che alle neanche 1000 anime che abitavano a questa data il nostro paese ai tanti viaggiatori che a diverso titolo percorrevano sia la Strada Maestra per Lecco che la Strada per Vimercate
Alcune di queste osterie dovevano poi essere dotate anche di Stallo (o Stallaggio), dove venivano ricoverati i cavalli delle carrozze che transitavano per Villasanta verso Milano o Lecco, fornendo un servizio di posta.
Con il Catasto Lombardo Veneto del 1850 non abbiamo dati altrettanto dettagliati rispetto alla catalogazione e localizzazione delle osterie villasantesi, ma troviamo comunque la conferma della permanenza negli stessi siti di un certo numero di queste nel territorio: “… Le case di questo comune (Villa San Fiorano) essendo in generale addette all’agricoltura e ad uso colonico tranne qualcheduna situata sulla Stradale che mette a Lecco le quali sono affittate per uso osteria e qualche piccolo esercizio,….”.
A queste osterie si sostituiranno poi le moderne strutture dei bar e degli alberghi. Nei primi decenni del ‘900 troviamo ancora l’Albergo S.Antonio in via Garibaldi e, al posto del “Gambaro”, l’Albergo del Pollino con tanto di stallazzo, che diventerà il luogo di sosta e di ritrovo più importante di Villasanta.
La campagna dei nobili e dei contadini
Ma chi popolava queste campagne e vigneti che componevano il territorio di Villasanta? Quale la loro vita e le condizioni che ne segnavano l’esistenza?
Per farcene un’idea può essere interessante esaminare i contratti con i quali i nobili e gli Enti ecclesiastici, allora unici proprietari terrieri, affittavano a massari e contadini questi campi con annesse abitazioni e strumenti di lavoro. Ci renderemo conto allora di come dovevano essere ben dure le condizioni di lavoro di questi nostri antichi concittadini e di come i nostri contadini dovevano condurre una vita miserabile e in una condizione di continua precarietà e sudditanza dai loro padroni, che naturalmente risiedevano per lo più a Milano o a Monza, sia laici che Enti ecclesiastici.
A questo proposito abbiamo la possibilità di seguire le vicende “contrattuali” relative ad uno stesso lotto di terreni per un totale di 224 pertiche a San Fiorano (per lo più vigne) che il Monastero di S.Martino di Monza, lungo il corso di più secoli, da in “affitto semplice” ad una serie di massari che si avvicendano nella conduzione di queste terre. I primi “Instrumenti di investitura” risalgono alla metà del’500 per poi arrivare fino ai primi del ‘700.
Abbiamo preso come esempio l’Investitura del 1650 con la quale il Monastero di S.Martino di Monza (delle suore Umiliate Capuccine del Lambro dell’ordine di S.Agostino) affittano ai Fratelli Pietro e Giuseppe Galli beni e terreni in San Fiorano. Si tratta di una casa da massari, con fienile (cassina), solaio, orto e corte oltre naturalmente a 224 pertiche di terreni (le vigne chiamate Il Chioso, la Corvera, la Novella, la Gabriella e il campo detto “La Campagnola”).
Queste le condizioni:
I conduttori si impegnano a pagare per nove anni come fitto 10 moggie di frumento e 10 moggie di segale più metà dei frutti da brocca (uva). Inoltre si pattuisce che:
1) I conduttori dovranno ogni anno consegnare come “appendici”:
– una soma e mezza di avena, due staie di ceci, una staia di fava fatta, una staia di fagioli alla festa di S.Lorenzo;
– 4 paia di capponi a S.Martino, più 2 paia di pollastre a S.Giovanni, più 8 dozzine di uova di gallina a Pasqua;
2) I conduttori a loro spese dovranno piantare e allevare tutte le viti che mancano ora e che mancheranno in futuro e così anche per le viti novelle e tener bene refilati tutti i fili delle viti, pena rimborso del danno;
3) I conduttori dovranno ingrassare (concimare) ogni due anni tutte le viti, vecchie e novelle, mettendo però meta del rudo(concime) il Monastero e l’altra metà i conduttori, che dovranno però andare a prendere il rudo spettante al Monastero dove questo ordinerà e anche per i pali (di sostegno delle viti) ed ogni altro legname per il quale le Rev.Madri locatrici sono tenute, p.r.d.;
4) I Conduttori siano tenuti il primo anno dell’Investitura a piantare tutte le pobie (pioppi) e salici che mancano e che mancheranno durante l’Investitura sopra la rippa di questi beni e intorno alla roggia Ghiringhella;
5) I Conduttori siano tenuti a piantare ed allevare tutti quei moroni (gelsi) che gli saranno dati dalle Rev.Madri l. e dovranno levare dal vivaio che si trova nell’orto della casa i moroni adatti, secondo gli ordini delle Rev.Madri locatrici o del Sig.Pravettoni o di altro agente, né potranno i conduttori togliere piante dal vivaio e piantarle in altro loco se prima non saranno piantati i moroni in tutti i posti ove si potranno piantare sui detti beni, secondo ordine delle Rev.Madri locatrici, p.r.d.;
6) Tutta la foglia dei moroni che c’è e ci sarà su detti beni durante l’Investitura sarà riservata ai Conduttori e non ne avranno parte le Rev.Madri e questo a compenso delle fatiche e spese dei Conduttori nel piantare e levare le viti e i moroni e per ogni altra cosa potessero pretendere a causa di detti lavori;
7) Dovendosi fare migliorie e riparazioni alle case affittate i Conduttori dovranno a loro spese e senza riduzione del fitto procurare tutto il materiale necessario;
8) I Conduttori entro 15 giorni prossimi debbono consegnare alle Rev.Madri locatrici questo Instrumento in pubblica e autentica forma a loro spese;
9) Entro la prossima festa di S.Martino i Conduttori siano obbligati a prendere possesso delle case, viti, piante, alberi e ogni altra cosa sia solita consegnarsi e al termine dell’Investitura i Conduttori sono tenuti a rendere tutte queste cose consegnate più migliorate che peggiorate, con il debito aggiustamento di natura salvo però la vetustà;
10) Le Rev. Madri locatrici siano tenute a mantenere ai Conduttori tutti i pali tiratori necessari per le viti che ci sono e ci saranno su questi beni, come ora i Conduttori professano aver avuto in consegna dalle Rev.Madri 2150 pali, a condizione che i Conduttori siano tenuti a pagare ogni anno alle Rev.Madri 10 scudi ogni 100 pali, p.r.d. ;
11) Ogni volta che i Conduttori si trovino in debito con le Rev.Madri locatrici siano obbligati a portare la loro parte di uve al torchio posto nel Monastero, a saldo del suo credito e saranno comunque sempre tenuti a portare a detto torchio la parte di uve spettante alle Rev.Madri ;
12) I Conduttori siano obbligati a fare tre vetture (trasporti) da Monza a dette possessioni e da queste a Monza senza alcun pagamento;
13) I conduttori non possano seminare sotto i fili delle viti alcuna biada(cereali per foraggio) grossa ma solo cose da zappa, p.r.d.
Si attesta inoltre che i Conduttori sono debitori al Monastero di Lire 2103, di cui Lire 200 per la scorta (beni e strumenti iniziali forniti dal proprietario) ed il restante per pagamenti mancati e per 3 moggia di frumento e 7 moggia di segale per semenze.
I Conduttori si impegnano a rendere le sementi entro la festa di S.Lorenzo, la scorta entro la festa di S.ta Margherita dell’ultimo anno e le restanti Lire 1903 ad ogni richiesta delle Rev.Madri .
Rogato il 25 Aprile 1650 da Ottavio Agugiaro notaio in Milano
Come si può vedere, molte delle condizioni riguardano le viti e l’uva, che di solito veniva spartita a metà tra il massaro e il proprietario, che però godeva del possesso del torchio da spremitura.
Il contadino o pagava per l’uso del torchio o si doveva accontentare di utilizzare i mezzi primitivi a propria disposizione (pigiatura con i piedi) con risultati qualitativi ben immaginabili. L’uva di spettanza del conduttore era inoltre la prima e ricorrente fonte per saldare i debiti verso il proprietario.
Significativo poi è il fatto di come la famiglia Galli già alla firma del contratto si trovi debitrice verso la proprietà di ben lire 2103, cosa che la poneva in una situazione di scarso potere e di precarietà contrattuale.
Da questo esempio si può dunque dedurre che le condizioni contrattuali erano ben severe per i massari che dovevano non solo pagare un fitto, in questo caso in natura, ben oneroso ma che, alla fine, dovevano rendere questi beni al Monastero in condizioni migliori di quando ricevuti. Nel caso sopra descritto nel documento, il conduttore Galli riesce oltretutto a spuntare condizioni favorevoli.
Gli vengono infatti risparmiate le giornate di lavoro gratuite (corvèes) da prestare al Monastero e la “foglia dei moroni” è tutta di sua pertinenza. Clausole queste che non ritroviamo in Investiture sia precedenti che successive. Bastava poi un semplice ritardo nei pagamenti del fitto perché i proprietari potessero non solo infliggere multe ma anche rescindere il contratto di locazione. Per i contadini questo voleva dire non solo sopportare perdite economiche ma anche perdere il lavoro e la casa, trovandosi così spesso alla mercé dei nobili e degli Enti Ecclesiastici. Cosa che spesso comunque succedeva allo scadere della locazione che non veniva sempre rinnovata. I contadini dovevano così rivolgersi ad altri proprietari terrieri per nuove Investiture, magari anche migrando o si trovavano costretti a retrocedere alla condizione di semplici braccianti agricoli.
NOTE
(1) Tratta dal “Theatrum sanitatis”, breviario di medicina Medioevale della fine dell’ Sec. XI – Biblioteca Casanatese Roma.
(2) Tratto da “Descriptio facta in locis curiae Modoectiae buvarum ruralium per Marcantonium de Legnano” – 1530
(3) Vedi Articolo : “C’erano anche Sesto Giovane e Taverna della Costa”
(4) “Descritione fatta sopra ogni sorte de blade, pertichato e bocche fatta per il S.r Leorissio Pecchio commissario sopraciò eletto” 1546 – Questo censimento fu ordinato dal Consiglio generale della Comunità di Monza
BIBLIOGRAFIA :
- Documenti dell’ARCHIVIO DI STATO DI MILANO” : Catasto teresiano, Catasto Lombardo/Veneto, Atti di governo, Fondo di religione,
- “La chiesa di S.Anastasia a Villasanta dalle origini remote ai tempi moderni” – Oleg Zastrow
- “Monza terra separata” – F.Rovida
- “La casa rurale nella pianura ne collina lombarda” – C.Saibene
- “Il vino a Monza e in Brianza” – AA.VV. – Prov.Monza Br. e Scuola Agraria Parco Monza