Il 1700 con la realizzazione del Catasto Teresiano ci restituisce le prime mappe del territorio di Villa San Fiorano insieme ad una ingente mole di informazioni. Un primo importante processo di aggregazione porterà alla fine del secolo alla nascita del comune di “Villa San Fiorano ed uniti”. Le cascine della Villa e di San Fiorano restano i centri più importanti sul suo territorio.
VILLA SAN FIORANO NEL CATASTO TERESIANO DEL 1700
Riprendiamo la nostra narrazione sul comune di Villa con San Fiorano, che avevamo lasciato alla fine del 1600. Ci inoltriamo nelle vicende relative all’entrante secolo XVIII, cominciando da quella ingente fonte di informazioni costituita dai registri e dalle mappe del Catasto Teresiano del 1721 a cui abbiamo già accennato.
Nel quadro delle importanti riforme introdotte dal governo austriaco nell’ambito amministrativo e istituzionale, la più importante fu senz’altro quella relativa alla riorganizzazione del sistema tributario locale, che comportò la generale misurazione e stima dei terreni dello Stato di Milano per la formazione dell’aggiornato catasto, detto
poi teresiano. Tale riforma rappresentò un momento fondamentale nel superamento dei residui assetti feudali e nella costruzione di un moderno stato di diritto, fatto che per l’epoca costituì una vera e propria innovazione radicale. Da queste operazioni censuarie, avviate da Carlo VI nel 1718, furono
ricavate per la prima volta le mappe di tutte le comunità del territorio, alla medesima scala di 1:2000, e furono compilati per ogni comune i Sommarioni con le indicazioni relative ai singoli appezzamenti numerati progressivamente in mappa. Attente misurazioni furono eseguite anche nelle più piccole proprietà, che venivano rappresentate in ogni loro minima parte e con un’estrema cura per i dettagli: per ognuna di esse veniva indicato il proprietario, l’estensione, la destinazione d’uso e la stima. Sulla base di queste valutazioni, veniva stabilito l’imponibile per ogni contribuente, superando la discrezionalità e i privilegi che ancora caratterizzavano le normative del tempo. Il lavoro di censimento ed elaborazione dei dati fu lungo e anche controverso, tanto che la nuova regolamentazione entrò in vigore solo nel 1760.
Le mappe del Catasto ci restituiscono le prime cartografie del nostro Comune, o per meglio dire dei “nostri” Comuni. Dalla “Tavola dei Comuni” qui esposta si vede come il territorio dell’attuale Villasanta era in effetti diviso tra più Comuni : La Santa di Monza, Concorezzo, Costa Taverna, Sesto Giovane, Sant’Alessandro e Villa con San Fiorano.
Come primo passaggio possiamo estrapolare la tavola “teresiana” di Villa S.Fiorano nei primi decenni del secolo, che rappresenta la prima mappa ufficiale dei confini di questo comune:
E’ presumibile che questa perimetrazione non facesse che certificare una situazione già consolidata da tempo, dandoci però per la prima volta una visione chiara e ufficiale dello stato di fatto amministrativo del tempo.
Come si vede il territorio del Comune era frazionato in due parti ben distinte e separate: a Est la cascina di San Fiorano e i terreni circostanti, a Ovest l’area che oramai rappresentava l’ambito di maggior insediamento e sviluppo con le cascine Villa vecchia, Casotto, Dossello, la Fola di san Giorgio e il nucleo a ridosso del borgo de La Santa lungo la Strada maestra per Lecco.
Su questi confini si aprirono comunque contenziosi con i comuni vicini. Ad esempio Monza reclamò, senza successo, il passaggio nel suo territorio di quella zona del nostro territorio che chiamiamo “in bass ai Erba” (tra il Lambretto e la via Deledda). E questo nonostante che Giuseppe Maggioni, abitante da sempre nella casa interessata dal contenzioso, dichiarasse di avere sempre pagato le tasse al comune di Monza. Ma prevalse la considerazione di mantenere come confine più naturale e razionale la linea della roggia Lambretto e della strada pubblica che la costeggiava.
Con il nuovo Catasto si introduce anche una riforma della struttura amministrativa dei Comuni. In base alla riforma del 1755 organo decisionale di ogni comune diveniva il “Convocato generale” o assemblea degli estimati (cioè dei proprietari di terreni ed immobili). Il Convocato era chiamato a formare l’imposta per l’anno in corso e era tenuto ad eleggere la “Deputazione”, formata da tre deputati dell’estimo (Ad es. nel 1767 a Villa San Fiorano furono eletti deputati il Marchese Francesco Casnedi, l’erede del Sig. Sigismondo Calchi e per terzo il Conte Renato Borromeo). Organo di governo municipale, la Deputazione, vedeva la preminenza della proprietà immobiliare: non solo i deputati nominati dai proprietari terrieri erano in maggioranza, ma erano anche gli unici a godere del potere decisionale. Alla Deputazione veniva inoltre demandato il compito di nominare un Sindaco e un Console, le cui competenze non si discostavano molto dai compiti tradizionalmente affidati ai loro omologhi dei secoli precedenti. Al sindaco era delegata la facoltà di agire come rappresentante della Deputazione per gli affari ordinari. Al Console continuavano a essere delegati compiti di polizia e di amministrazione locale: pubblicava gli ordini emanati dal governo, indiceva le adunanze pubbliche, presenziava ad atti di natura fiscale e finanziaria.
Queste per lo meno erano le norme previste anche se ancora nel 1751 nell’ ulteriore indagine condotta dagli incaricati del Censimento catastale (i cd “45 quesiti”) per Villa San Fiorano si dice: “Il Comune non ha Consiglio generale ed al principio di ogni anno elegge il Console in pubblica piazza”.
I “PROCESSI VERBALI”
Nel 1721 gli incaricati del nuovo Censimento,per raccogliere informazioni sul Comune nei cd Processi verbali, “intervistano” alcuni residenti :
- Angelo Ornaghi, Console del Comune e fittavolo di 260 pertiche (1) di Ludovico Loria a San Fiorano
- Giovanni Cambiaghi, fittavolo di 300 pertiche del Marchese Arbona (alla Villa vecchia)
- Pietro Martire Babusio, follatore a San Giorgio
I nostri tre concittadini, attingendo alle loro conoscenze non sempre aggiornate, ci rendono comunque una serie di notizie decisamente interessanti sulla comunità del tempo:
- il Comune è autonomo e non dipende da altra città “dominante”;
- gli abitanti sono 312, “più che bastanti per i lavori necessari” ;
- i maggiori estimati sono il Marchese Erbona ( nella parte occidentale) e il Sig. L. Loria (a San Fiorano). (Oltre ai due citati vi erano comunque altri importanti proprietari: i Marchesi Casnedi e Recalcati, i Padri gesuiti di Brera di Milano a S.Alessandro, le Monache di San Martino e la famiglia Raimondi a S.Fiorano, le suore di San Paolo di Monza intorno alla Ca’Bianca);
- nel Comune sono censiti 31 siti di abitazione;
- vi sono due osterie (entrambi in via Mazzini, al segno del “Gambaro” e al segno “dell’Arma Bel gioiosa”) e una “fola da carta” di là dal Lambro (San Giorgio);
- i terreni sono coltivati essenzialmente a cereali o a vite, con pochi tratti boschivi;
- i terreni sono affittati “a frutti” e non “a danaro”. (Il fitto è cioè stabilito in una quota fissa di cereali , per lo più segale e frumento, e nella metà delle uve e della seta prodotte);
- la seta si vende a Monza mentre tutto il resto a Milano;
- i cittadini maggiori di 18 anni pagano 55 soldi a testa per anno che vanno per metà al Curato e per metà al Console. Si paga poi la “tassa del sale” in proporzione alle pertiche affittate, mentre i proprietari pagano la “diaria” a Milano;
- la Parrocchia è quella de La Santa (Pieve di Vimercate ??!!)
- vengono poi dettagliati i valori di mercato delle terre e dei loro fitti, insieme agli importi delle pigioni di tutte le case censite.
La realtà fondiaria del comune rispecchiava la situazione che caratterizzava un po’ tutte le campagne del contado monzese e brianzolo. A prevalere era la grande proprietà sia laica che ecclesiastica. Basti pensare che le 4645 pertiche di cui contava tutto il comune si distribuivano tra : marchesi Arbona 1333; marchesi Casnedi 139; famiglia Loria 720; famiglia Raimondi 418; marchesi Recalcati 339; Monastero S.Martino 224; monastero S.Paolo 317; gesuiti di Brera 978. Solo le restanti 177 pertiche erano ripartite tra piccoli proprietari locali.
Nel nostro comune era oramai da tempo fiorente la bachicoltura e la relativa produzione di seta. A metà ‘700 sul solo territorio di Villa San Fiorano erano censite ben 682 piante di gelsi (moroni), le cui foglie erano indispensabili per l’allevamento dei bachi.
Ricordiamo poi come la coltivazione della vite avveniva con il metodo della “vite maritata”. I tralci di uva erano sostenuti da filari di alberi d’alto fusto (spesso gelsi) tra i quali si stendeva la vite “a festoni”. I campi di cereali erano attraversati da questi filari di “uva maritata”, disegnando un paesaggio rurale decisamente suggestivo (2).
Nella seconda metà del secolo Villa S.Fiorano vedeva ancora la presenza di 120 pertiche a “bosco forte”, per lo più nella parte orientale del suo territorio. A titolo generale ma indicativo anche per il nostro caso, possiamo dire come al 1730 in tutta la Corte di Monza ben il 62% dei terreni era censito come “aratorio vitato”, il 18% a semplice “aratorio”, l’11% a prato e solo l’1,5%a bosco. Tra le colture praticate lungo tutto il secolo il vino e il gelso confermarono la loro prevalenza mentre perdettero di importanza quelle dei “grani minori”, quali segale e miglio, sostituite dal grano e dal granturco. Il ‘700 rappresentò comunque per le terre brianzole un periodo di intensificazione e sviluppo di tutta l’attività agricola, accompagnata da un incremento dei redditi fondiari.
A SAN FIORANO
Le mappe del Catasto Teresiano ci restituiscono per la prima volta la rappresentazione cartografica della chiesa e della cascina di S.Fiorano. La chiesetta, ora ben identificata e sempre dedicata anche a San Francesco, per tutto il secolo resterà nel patrimonio dei Loria e continuerà a svolgere dignitosamente le sue sacre funzioni. Ce ne danno notizia i verbali di alcune visite arcivescovili nella nostra Parrocchia (1705 – 1755), che tra l’altro parlano di un tempietto di ben ridotte dimensioni (6 metri di lunghezza, 5 di larghezza e 5 in altezza) e di una nuova sagrestia aggiunta a metà secolo.
Altrettanto possiamo dire per la Cascina che per tutto il ‘700 vedrà il susseguirsi di aggiunte di nuove ali ed edifici. La mappa del 1721 è la prima restituzione grafica della sua morfologia. Possiamo vedere come ad inizio secolo si stia già definendo la pianta con le quattro corti in successione, che si perfezionerà nell’800 e perverrà fino ai giorni nostri. Non è neanche facile riuscire a collocare in pianta la parte adibita “a casa nobile”, presente come visto fin dal ‘300. La mappa indica la presenza di due giardini: uno dei Loria (al numero 104) e l’altro dei Raimondi (al numero 105). Possiamo pensare che le case signorili delle due famiglie affacciassero su questi giardini e quindi ipotizzare la loro collocazione nel complesso orientale della cascina.
La cappella affacciava a Ovest sulla pubblica via e a Sud sul giardino degli stessi Raimondi
A proposito della famiglia Raimondi (proprietari anche della cascina Perella) e dei loro possedimenti in San Fiorano, possiamo accennare ad una loro richiesta datata 1779 all’ arcivescovado milanese per poter aprire un “oratorio pubblico” in una loro casa posta appunto in San Fiorano. Sappiamo che le proprietà dei Raimondi erano collocate negli edifici sul lato orientale della cascina e quindi possiamo pensare che il nuovo oratorio si dovesse collocare in questa ala. La conferma a questa ipotesi la troveremo nelle nuove tavole del Catasto Lombardo/Veneto del 1855 dove non appare più traccia della cappella dei Loria mentre è espressamente indicato l’ oratorio privato eretto dai Raimondi.
A fine ‘600 avevamo trovato la famiglia Galli presso la cascina quali massari delle Monache di San Martino di Monza. Proprio ad inizio del secolo ai Galli subentrò il massaro GiovanBattista Castoldo detto il Gibbone nella conduzione delle circa 200 pertiche di proprietà del Monastero qui in San Fiorano. Ma già nel 1710 il Castoldo deve lasciare a nuovi massari. Da Concorezzo si installano qui a San Fiorano Battista e Giuseppe Maroni, padre e figlio. Anche per questi massari abbiamo il dettaglio del contratto d’affitto con il Monastero e dobbiamo dire che, se paragonato con quello del 1650 con il Galli (esposto nella Parte I° di questo articolo), le Monache di San Martino si dimostrarono poco esose. Si mantennero infatti le stesse condizioni generali e gli obblighi di contratto per gli affittuari (mantenimento e miglioramento dei beni, obblighi accessori) e anche il canone di affitto vide un incremento contenuto. Si passò dalle 10 moggia di segale e frumento alle 12 degli stessi prodotti, con la conferma degli stessi “Appendizi”. La casa dove risiedevano i Maroni è detta composta da “alcuni locali inferiori con i loro relativi superiori, stalla, fienile, aia, forno e pollaio” e affacciata sulla pubblica piazza di San Fiorano. Si tratta molto probabilmente sempre di
quell’ antico edificio, in mappa segnato col numero 166, già individuato come presente in cascina fin dal 1300 (3).
Ma a ulteriore dimostrazione della precarietà delle condizioni di vita di questi massari, nel 1745 ritroviamo su questi appezzamenti la conduzione di un certo Bartolomeo Castoldo, probabile famigliare di quel precedente GiovanBattista.
Verso la fine del secolo le vicende di questi nostri territori si incrociano con quelle della Storia con la S maiuscola. Durante tutto il 1700 le idee e i valori della “cultura illuminista” trovarono buona affermazione anche presso le case regnanti europee. Sovrani, ministri, intellettuali riformatori, tutti erano sostanzialmente concordi sulla necessità di liberare, privatizzandoli, gli enormi patrimoni concentrati nelle mani del clero e degli altri enti“pubblici” laici. Questo fenomeno creò ben presto i presupposti per un deciso intervento statale nell’ organizzazione e nella vita delle strutture ecclesiastiche delle loro nazioni. I vari principi e sovrani erano oltretutto mossi anche dal perseguimento di loro ben precisi e più immanenti interessi economici e finanziari. Iniziò così in molti stati europei un processo di forte ridimensionamento degli ordini religiosi con la soppressione sia del numero del clero regolare che di monasteri e conventi. Il fenomeno risultò particolarmente evidente in Lombardia e negli altri territori inseriti nell’impero asburgico, ove già durante il regno di Maria Teresa (1740-1780) e poi, soprattutto, con l’avvento al trono di Giuseppe II (1780-1790) l’intervento statale tese a ridisegnare la funzione e la presenza della Chiesa e delle sue istituzioni nell’ambito dello Stato e della società, nell’ottica di una complessiva secolarizzazione della stessa. Questa processo troverà poi ulteriore continuità e sviluppo sotto i governi rivoluzionari e napoleonici nei primi decenni del 1800. In Lombardia, ad esempio, dopo un’imponente indagine conoscitiva sui beni del clero, nel 1767 fu approvato l’editto sulle “manimorte”, a cui fece seguito la soppressione di un gran numero di conventi. Dal 1768 al 1781 i monasteri furono ridotti da 290, con una rendita annua valutata in oltre cinque milioni, a soli 145, con una rendita inferiore ai due milioni di lire.
I beni patrimoniali del clero così “confiscati” passarono ad una “Regia Commissione Ecclesiastica” che iniziò un intenso processo di vendita e dismissione di questo patrimonio che andò a finanziare un ricco Fondo di Religione. Va detto che questo Fondo fu spesso utilizzato dal governo austriaco per pagare non solo “le pensioni” per tutti i religiosi “dismessi” (ed ora impegnati in servizi di pubblica istruzione o assistenza), ma anche per finanziare nuovi organismi laici per lo svolgimento delle stesse attività di assistenza e sostegno ai poveri prima svolte dagli enti ecclesiastici. A questo processo di smantellamento del patrimonio ecclesiastico contribuì anche lo stato precario dei bilanci economici di molti conventi, spesso amministrati con ben scarsa oculatezza.
I principali beneficiari di questa fase di “rivoluzione fondiaria” risultarono in massima parte gli esponenti della tradizionale aristocrazia fondiaria. A questa nobiltà terriera, tuttavia, venne ad affiancarsi uno strato consistente di nuovi proprietari di estrazione borghese. Veniva cioè formandosi accanto alla grande proprietà nobiliare ed ecclesiastica (che comunque resisteva e parzialmente si ricostituiva) un consistente nucleo di proprietà borghese, sempre più dinamica e aggressiva sul mercato della terra. Si determinò così un’evoluzione in senso mercantile e capitalistico della gestione aziendale e dell’economia agricola lombarda.
Copia dell’editto imperiale del 1786 con il quale, a seguito della soppressione di molti Monasteri, si impone alle suore la scelta tra il poter restare presso i propri (o altri) monasteri a patto che si impegnino ad un “sistema di vivere tale che le renda utili al Pubblico” o, nel caso non vogliano alcun cambiamento, di vedere i loro Monasteri soppressi o ridimensionati, a insindacabile parere dei Delegati imperiali.
In pratica si chiedeva alle monache (per lo meno solo alle Coriste, cioè quelle di buona o nobile famiglia) di dedicarsi all’educazione delle figlie dei nobili o all’istruzione delle fanciulle del popolo, nonché alla loro formazione “professionale” in lavori donneschi.
Per quanto riguarda invece le monache claustrali, queste si prevede vengano impegnate nell’Istruzione della Gioventù, a fronte però di una gratificazione per la loro opera.
E così questo vento di secolarizzazione arrivò fino a Monza e da qui a San Fiorano. Nel 1786 il Monastero di San Martino di Monza, insieme a molti altri, fu appunto soppresso e tutti i suoi beni messi all’asta. Il suo Possedimento di San Fiorano fu però escluso dal bando complessivo in quanto rappresentava una parte minore e decentrata di tutto il patrimonio del Monastero. Fu quindi venduto direttamente nel 1786 a tale Signor Don Antonio Radaello della Torre di Milano, vice regolatore delle Finanze.
Questi beni venivano venduti dalla Regia Commissione Ecclesiatica con “contratti misti”. Un terzo dei beni era subito alienato in conto capitale mentre gli altri due terzi venivano affittati a “livello” a fronte di un canone annuo. Il compratore aveva però la possibilità di “affrancare” a sua discrezione anche i due terzi affittati e ottenere così il “diretto possesso” di tutti i beni oggetto del contratto. Cosa che fece lo stesso Antonio Radaello che nel 1795 riscattò per lire imperiali 10980 la parte delle 229 pertiche prima affittata ad un canone annuo di lire imperiali 466. Per il possesso del primo terzo nel 1786 aveva versato ben lire imperiali 7777.
E così dopo ben 450 anni questo Radaello milanese subentrò alle Monache di San Martino nel possesso di questi terreni con casa da massaro a San Fiorano. Di li a poco, intorno alla metà dell’800, proprio all’altezza dell’antica “vigna del Chioso” sorgerà la cascina Redaelli (la Madunina) su probabile iniziativa dei nuovi proprietari.
La stessa sorte in quegli anni toccò alla “Vigna di S.Fiorano” di sole 43 pertiche di proprietà del Monastero di S.ta Margherita di Monza. Con la soppressione del Monastero e la vendita del suo patrimonio immobiliare, questa vigna fu acquistata dai nobili F.lli Manzi, che comunque operarono tramite il prestanome Bernardo Galbiati della Santa. In questo caso è interessante notare come negli atti di vendita questa vigna è detta confinare con appezzamenti tutti di proprietà degli stessi Manzi. Essendo questi terreni dalle mappe catastali di inizio ‘700 indicati come proprietà della già citata famiglia Loria, possiamo pensare ad un passaggio patrimoniale alla famiglia Manzi, magari in via ereditaria.
ALLA VILLA
Cosa stava succedendo nel frattempo nell’altra parte del territorio di Villa S.Fiorano ?
LA VILLA VECCHIA
Per quanto riguarda la “Possessione della Villa” nel 1762 con il Marchese Giovanni Paolo si estingue la dinasta degli Arbona e nei lasciti testamentari tutta la consistenza del bene passa ai suoi cugini della famiglia Calchi. In particolare sarà il Conte Ottavio a diventare titolare di questa proprietà (anche se ancora minorenne). Il figlio Sigismondo, morto in giovane età, chiude anche lui la dinasta dei Calchi e alla fine del secolo la Villa passa nel patrimonio del Conte G.Giuseppe Barbò che sposa la Contessa Teresa Pallavicini, vedova Calchi (madre di Sigismondo). Si tratta di consueti movimenti tra le grandi famiglie nobili e borghesi di Milano essenzialmente finalizzate al mantenimento e all’aggregazione dei loro capitali immobiliari.
Ma al di là delle vicende proprietarie, cosa succede in Cascina e chi e come ci viveva ?
In questo senso ci dice qualcosa il Contratto d’affitto del 1749 con il quale G.Paolo Arbona (o meglio sua madre Contessa Piantanida Nava, in quanto egli ancora minorenne) “investe” Pietro Martignone di Monza dei beni della Villa per nove anni al fitto annuo di 6000 lire imperiali. Non siamo più in presenza del “Contratto misto a grano” della tradizione lombarda (vedi dettaglio del contratto del 1650 con la famiglia Galli nella Parte I°) che prevedeva il pagamento del canone in una quota predefinita dei prodotti ricavati nei campi (per lo più frumento e segale). Oramai tenderanno a prevalere contratti dove si prevedeva una quota fissa in danaro, svincolando totalmente le condizioni del canone annuo da fattori legati alla produzione agricola.
Il Martignone (al quale nel 1752 subentrerà Antonio Lucini, fideiussore del contratto del ’49) risulta dunque il conduttore del fondo, l’imprenditore agricolo che disponeva di ampie risorse finanziarie e che utilizzava massari e contadini al suo servizio per la lavorazione diretta dei beni affittati. A tal proposito sappiamo che i massari erano tre: Carlo Gerosa e Cesare Villa al Casotto, Giovanni Cambiago detto Pagnone alla Villa. Più confusa è la situazione dei pigionanti. Sappiamo di sicuro che alla Villa abitavano Giovanni Radaello detto il Balzoino e Giuseppe Cazzaniga, mentre al Casotto viveva Giuseppe Mojolo. Erano presenti molti altri pigionanti (Giuseppe Gallo, G.Battista Artesano, Giovanni Castello, Giuseppe Donzello, Faustino Molgora, Giuseppe Sala e Antonio Maria Pozzi) che però non riusciamo a collocare con precisione nell’una o nell’altra cascina. Rispetto alla situazione descritta nel 1674 (8 famiglie per un totale di 44 residenti alla Villa e 2 famiglie per 27 residenti per il Casotto) il numero dei nuclei familiari non sembra crescere in modo significativo (circa 12/ 13 per le due cascine) come quello dei residenti stimati a circa 80/90, pur avendo Villa S.Fiorano nel suo complesso in questi quasi cento anni raddoppiato i suoi abitanti (da 170 a 360 ).
I documenti dell’epoca ci trasmettono anche la dettagliata consistenza degli edifici presenti nel Possedimento nel 1750: il Cassinotto, la Casa da Nobile in Villa e le Case della Villa.
La Casa da Nobile si presentava con un portico a tre colonne, due grandi saloni (uno al piano terra e l’altro al primo piano) che affacciavano sul giardino da nobile e altre 12 stanze. A tutto ciò si aggiungevano svariati locali di servizio (cucine, stalle, pollai, torchieria, cantina, tineria, solai), corte e brolo. Possiamo anche ricordare come la Casa ospitava anche una galleria con Oratorio. Di questo Oratorio privato degli Arbona si hanno notizie dalla fine del 1600 ma non sembra avere avuto lunga vita. Già ai primi del ‘700 il parroco Radaelli nota infatti come “ in questo Oratorio della Villa non si celebra più perché i Padroni che sono i Signori Arbona non abitano mai alla Villa suddetta”.
Le Case della Villa dove abitavano il massaro Cambiago detto Pagnone e i pigionanti. L’edificio comprendeva ben 18 locali su due piani, oltre a diversi servizi (stalle, pollai, solai, cucine,cantine) con corte rustica e orti. Anche qui c’era un salone nobile riciclato però come abitazione del pigionante Radaello.
Infine la cascina Casotto dove risiedevano i due massari Gerosa e Villa con i pigionanti. Qui gli spazi sono minori e di minore qualità. Oltre ai soliti servizi abbiamo solo 7 locali con corte e orti.
Se sommiamo l’insieme di queste tre parti della cascina, ci rendiamo conto che questa nel suo complesso poteva contare sulla presenza di ben una trentina di locali d’abitazione oltre alle altre numerose strutture: stalle, cantine, solai, pollai, orti e corti. Questo ancora a sottolineare la consistenza di questo nucleo agricolo e l’importanza della cascina della Villa, paragonabile, se non maggiore, a quella della cascina San Fiorano e decisamente più rilevante della vicina Ca’ Bianca, come vedremo di ben più ridotte dimensioni.
Nel 1784 i conti Calchi mettono ancora più a frutto la loro proprietà della Villa e questa volta la affittano alla famiglia Pirovano di Missaglia (gli omonimi Carlo, zio e nipote). Il canone annuo passa a 7000 lire, dalle precedenti 6000 e gli affittuari dovevano anche riservare due stanze nella Casa da nobile per eventuali visite da parte dei nobili proprietari. I Pirovano rinnoveranno il contratto con la successiva generazione (Carlo e GiovanBattista) e resteranno alla Villa fino ai primi dell’800.
LA CA' BIANCA
Con le tavole del catasto Teresiano del 1722 abbiamo le prime rappresentazioni del complesso della Ca’Bianca. Qui il rilevatore del tempo ci restituisce la denominazione di Cas.a (cascina)Biancha, arricchendosi il nome di una h di cui non individuiamo l’origine. Col tempo si arrivò alla contrazione in Ca’Bianca, di cui comunque resta ignota l’origine. Nella mappa si nota la presenza di una cascina con pianta ad L affiancata sulla destra da un’ampia ortaia a disposizione dei contadini. La futura villa arriverà solo ai primi dell’800.
Sul lato opposto della strada proprio di fronte alla cascina appare un edificio chiamato “la Capeleta”. Non sembra proprio rimandare comunque ad un edificio sacro, quanto piuttosto alla possibile presenza sul posto di un preesistente piccolo oratorio o edicola sacra, tipiche della devozione nei contesti rurali, di cui però si è persa ogni traccia.
Unico edificio sacro in luogo resta il piccolo oratorio si San Vincenzo, di cui parleremo in seguito.
Per la prima metà del secolo si protrae la proprietà delle Suore di San Paolo di Monza e la conduzione da parte della famiglia Magni. Nel 1767 si verifica uno sdoppiamento nella gestione del possedimento. La famiglia Magni (detti i Ronchetti), con le sue nuove generazioni, si vede rinnovare il contratto d’affitto solo per una metà circa delle terre della Ca’Bianca. L’altra metà viene affidata al nuovo massaro Ambrogio Allevi, con figli e nipoti.
Ma le sorti di questo Possedimento stanno scritte in quello che abbiamo sopra presentato come “processo di secolarizzazione” della Lombardia Asburgica. Come già visto per i Monasteri di San Martino e di santa Margherita di Monza anche quello delle suore di San Paolo viene soppresso e i suoi beni messi in vendita dalla “Regia Commissione Ecclesiastica”. Il Convento di Monza divenne una “Casa di Governo”, cioè una residenza per le ex religiose che volessero svolgere attività di istruzione per le fanciulle e di varia sussistenza al popolo, a fronte del versamento di una “pensione” a loro favore da parte del Fondo di Religione.
Nel 1786 si svolge l’asta per l’assegnazione di tutte le 645 pertiche della Ca’Bianca che vengono aggiudicate a certo Giovanni Borano. Quest’ultimo dichiara però di operare per nome e per conto del Reverendo Luigi Motta di Monza che quindi sottoscriverà (insieme al padre Paolo e al fratello Domenico) il “Contratto misto” di acquisto con il Fondo di Religione.
Il Motta paga in conto capitale 21788 lire imperiali per un terzo dei beni totali e un canone annuo di affitto di 1307 lire imperiali per gli altri due terzi. Anche qui allora assistiamo al passaggio dal patrimonio ecclesiastico a quello di un privato (per quanto sacerdote) di un importante complesso immobiliare quale quello della Ca’Bianca.
Dalla “Ricognizione dei beni” del 1787 allegata a questo atto di vendita abbiamo ulteriori informazioni. Nel Possedimento 265 pertiche sono lavorate ancora dal massaro Francesco Magni e fratelli(la famiglia Magni, detti i “Ronchetti”, qui presenti ben dal 1665) per lo più nel territorio di Villa San Fiorano, mentre altre 226 sono condotte dal nuovo massaro Giovanni Motta (che non sappiamo se in qualche rapporto di parentela con i nuovi padroni), per lo più invece nel territorio di Arcore.
Sempre dalla citata Ricognizione abbiamo anche la possibilità di esaminare nel dettaglio le tipologie delle abitazioni dei Massari e dei Pigionanti presenti alla Ca’Bianca, con tanto di mappa allegata. Pur essendo in territorio di Arcore, questa più dettagliata configurazione può essere estesa anche alle altra cascine “villasantesi”, aiutandoci ad una migliore comprensione delle condizioni abitative del tempo.
La mappa rappresenta il corpo principale della cascina, occupato dai due Massari. Per inquadrare il luogo dobbiamo immaginare che l’angolo superiore destro del caseggiato coincide con l’attuale incrocio tra il V.le della Vittoria e la via Molino Sesto Giovane. Tutta la parte destra del mappale (n° IX e 12) era occupata dall’”ortaglia”, divisa tra i due massari. Si entrava dal comune androne al n° 1 e I dal quale partivano le due case.
A sinistra l’abitazione era composta da :
al n°2 = stalla |
A destra l’abitazione era composta da :
al n° II = portico di tre campate con pozzo comune
Sotto il portico n° II c’era la scala che portava al “superiore”. Qui c’era il granaio sopra la cucina e due stanze sopra i n° III e IV.
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In un corpo distinto posto di fronte all’orto dei massari, sull’altro lato dell’attuale V.le della Vittoria, c’era invece l’edificio con la Casa da Pigionante. Questa era composta da :
Al n° 1 = Portichetto con il pozzo
Al n° 2 = Cucina con focolare, cappa e forno
Al n° 3 = Stalla
Al n° 4 = Portichetto a due campate
Al n° 5 = Cortile anche ad uso d’aia
Dalla cucina si accedeva tramite scala esterna ad una stanza al primo piano
Stiamo chiaramente parlando di residenze molto povere ed essenziali con pavimenti per lo più in terra battuta, anche se dalla Scala in “braccia milanesi”(4) presente sulle mappe sappiamo che i locali che le componevano erano decisamente ampi. Ad esempio le cucine erano spazi di più di 30 mq per un’altezza di oltre 3 metri. Sono poi subito evidenti le diverse condizioni abitative dei massari rispetto ai pigionanti. I primi potevano godere non solo di un numero di locali doppio ma anche di servizi come il granaio e il pollaio. Inoltre, dato molto significativo, nel loro caso le stalle erano gli ambiti più spaziosi, a fronte di uno “stallino” dei pigionanti. Questo perché solo i massari avevano a disposizione un buon numero di bestie, soprattutto per i lavori nei campi, mentre i pigionanti potevano contare solo sulle loro vanghe
NASCE “VILLA SAN FIORANO ED UNITI”
La seconda metà del secolo si chiude con un ulteriore importante novità per la futura Villasanta. E’ infatti proprio dalla complessiva riorganizzazione amministrativa “teresiana” che prese inizio quel processo di accorpamento che porterà da lì a 200 anni alla creazione di Villasanta. Con l’entrata in vigore della nuova riforma negli ultimi decenni del secolo il nostro Comune di Villa San Fiorano divenne il Comune di “Villa San Fiorano ed uniti”, aggregando a sè i piccoli comuni di S.Alessandro(5), Taverna della Costa e Sesto Giovane(6). Da qui le vicende di queste ultime comunità che abbiamo raccontato in sedi separate, rientrarono nel più ampio contenitore del nuovo Comume aggregato. Esso poteva ora contare su 642 anime e su un territorio non solo più grande ma decisamente più omogeneo e compatto.
In particolare possiamo dire che con l’aggregazione di Taverna della Costa si costituiva un nucleo importante intorno all’attuale via Mazzini che sempre più andrà assumendo il ruolo di centro di maggior sviluppo e vivacità del nuovo comune, forte della sua collocazione sulla Strada maestra per Lecco e della sua contiguità alla frazione monzese de La Santa.
Il nostro comune così appena aggregato, corse però subito il rischio di una prematura scomparsa. La nuova Amministrazione francese della neonata Repubblica Cisalpina decise infatti nel 1797, in un disegno complessivo di riforma amministrativa, di aggregare alla municipalità di Monza anche quella di Villa San Fiorano ed uniti. In questo contesto Monza si trovò a raccogliere sotto di sé anche Vedano, Muggiò, Lissone ed altri centri minori. Bisognerà aspettare la fine del periodo napoleonico e l’arrivo dell’Amministrazione asburgica per ristabilire nel 1816 la situazione precedente e restituire a quei comuni la loro piena autonomia.
Scampato dunque il pericolo (posto che tale si potesse considerare) di ridursi a frazione di Monza, il nostro comune affrontò con rinnovato slancio il secolo XIX, come vedremo nel prossimo articolo.
Note
- La “pertica” era antica unità di misura di superficie a sua volta composta da 24 tavole e pari a mq. 654,5179
- Vedi Articolo “Villasanta terra di Vino”
- Vedi Articolo “San Fiorano e la Villa(vecchia)”
- Il “braccio milanese” era antica unità di misura lineare corrispondente a 0,594936 metri. Era suddiviso in 12 once.
- Vedi articolo “Sant’Alessandro
- Vedi articolo “C’erano anche Sesto Giovane e Taverna della Costa”
Bibliografia
- Archivio di Stato di Milano = Fondi : Catasto, Censo, Fondo di Religione
- Archivio storico civico di Monza = Fondo Cisalpino
- F. Mineccia = “Patrimonio ecclesiastico e mercato della terra in Italia (Secoli XVIII-XIX)”- in “Le inchieste europee sui beni ecclesiastici” a cura di G. Poli – Cacucci Bari 2005
- G. Mazzucchelli = “ La riforma censuaria nella Lombardia del ‘700” in Rassegna degli Archivi di Stato 1969
- S. Zaninelli = “ Il nuovo censo dello Stato di Milano dall’editto del 1718 al 1733” – Pubblicazione Univ. cattolica Sacro Cuore Milano 1963